In Italia si lavora troppo, si guadagna poco e si è ricattati sempre. E se sei in Calabria, spesso devi pure dire grazie. A chi? Al datore che ti assume in nero, al politico che ti raccomanda, al titolare che ti fa firmare un contratto da 1.200 euro per poi chiedertene “gentilmente” 400 indietro a fine mese. Un’estorsione mascherata da favore, un’umiliazione con la cravatta, un crimine che tutti conoscono ma di cui nessuno parla. E se osi ribellarti, il posto te lo scordi. La fotografia del mondo del lavoro italiano, e calabrese in particolare, è un catalogo di ingiustizie. Contratti a termine che durano anni, tirocini infiniti, stage non pagati, false partite IVA, lavoratori che guadagnano meno di quanto serve per sopravvivere, mentre gli annunci di lavoro richiedono "flessibilità", "resistenza allo stress" e la capacità di lavorare "anche nei giorni festivi", ovviamente senza compensi aggiuntivi.

Il caporalato 2.0: la “restituzione” dello stipendio

Poi c’è la prassi criminale della “restituzione”: firmi il contratto, vieni assunto con uno stipendio ufficiale – magari da 1.300 euro – ma ti spiegano subito che dovrai restituirne 300 o 400 al titolare “perché così funziona”. E se non lo fai, sei fuori. Un’estorsione, né più né meno, che si consuma ogni giorno, in silenzio, tra le mura di bar, ristoranti, supermercati, cooperative, aziende agricole, cliniche private. Il paradosso? I controlli sono pochi, le denunce ancora meno, perché chi lavora ha paura. Perché chi denuncia poi si ritrova sulla lista nera, e nessuno lo assume più. In Calabria, come in molte altre zone del Sud, la legge è spesso un’ospite di passaggio, e il lavoro è un privilegio da mendicare.

La “pastetta” è la regola, non l’eccezione

E se vuoi entrare in ospedale, al Comune, in una cooperativa che lavora con i fondi pubblici, allora serve la “pastetta”. Un parente, un politico, un contatto: chiamatela raccomandazione, segnalazione o favore, ma è una truffa che uccide il merito e trasforma i diritti in concessioni. Posti di lavoro ottenuti non per competenza ma per convenienza. Giovani brillanti che restano fuori, e incapaci garantiti che restano dentro. È così che la Calabria continua a perdere cervelli, energie, speranze. Chi ha talento scappa, chi resta impara presto a chinare la testa.

Diritti ridotti a favore, dignità barattata col bisogno

In questo sistema malato, anche un diritto elementare – come un contratto regolare, una malattia pagata, una maternità tutelata – viene trattato come un lusso. E chi lo pretende, diventa un problema. Troppo “rigido”, troppo “pretenzioso”, poco “flessibile”. Come se chiedere di essere pagati per il proprio lavoro fosse un capriccio. Il risultato? Una generazione intera schiacciata tra precarietà, ricatti e assistenzialismo malato. E una regione come la Calabria che continua a perdere terreno, opportunità, dignità.

Cambiare è possibile, ma serve coraggio (e memoria)

Non basta indignarsi il Primo Maggio, non bastano i post sui social. Serve organizzazione, serve denuncia, serve sostegno reciproco. Serve ricordare che lavorare non deve mai significare subire. Che la povertà non è colpa di chi lavora, ma di chi sfrutta. Che ogni sopruso accettato oggi diventa legge non scritta domani. Perché la libertà – quella vera – inizia quando smettiamo di dire grazie per un lavoro che dovrebbe essere un diritto. E cominciamo a dire basta.