Arrivano i primi segnali positivi da un vaccino a Rna messaggero personalizzato contro la forma più diffusa e aggressiva di cancro al pancreas, nota come adenocarcinoma duttale pancreatico: nella sperimentazione clinica di fase I ha provocato un aumento della risposta immunitaria dei pazienti e ha ritardato la recidiva, quando usato in combinazione con altri trattamenti.


 

Il vaccino terapeutico, messo a punto in uno studio pubblicato sulla rivista Nature e guidato dal Centro per il cancro Memorial Sloan Kettering di New York, è cucito su misura su ogni individuo, in quanto basato sulle specifiche proteine prodotte da ciascuno.

 

L’adenocarcinoma duttale pancreatico è la forma più diffusa di tumore al pancreas.


 

È una patologia molto aggressiva, con tassi di sopravvivenza molto bassi e una prognosi di solito inferiore ai 5 anni: una combinazione di terapie chirurgiche e di altro tipo possono ritardare un po’ la recidiva, ma con scarse percentuali di successo.

 

Tuttavia, studi recenti hanno mostrato che la maggior parte dei pazienti affetti da questa tipologia di cancro presenta elevati livelli di antigeni nuovi, cioè proteine situate sulla superficie delle cellule che emergono sui tumori in seguito a mutazioni del Dna. Queste proteine, quindi, possono diventare il bersaglio di terapie vaccinali personalizzate, con l’obiettivo di migliorare l’esito delle cure.

 

È questa la strada tentata dai ricercatori guidati da Luis Rojas e Zachary Sethna, che hanno somministrato a 16 pazienti il loro vaccino a mRna insieme a chemioterapia e immunoterapia, avviando un trial clinico di fase I.

 

Lo scopo di questa fase della sperimentazione è soprattutto quello di studiare la sicurezza del farmaco e la presenza di eventuali effetti collaterali: per questo solitamente i partecipanti sono soggetti sani, ma in questo caso gli autori dello studio hanno coinvolto persone già malate.

 

I risultati mostrano un aumento della risposta immunitaria nel 50% dei pazienti, correlate anche a tempi più lunghi di ricadute dopo 18 mesi, mentre i soggetti che non hanno avuto miglioramenti nell’attività del sistema immunitario hanno sperimentato un peggioramento della malattia dopo una media di 13,4 mesi.