Conoscere meglio le infezioni che colpiscono le specie animali aliene (trasferite cioè dall'uomo al di fuori del loro habitat naturale) può aiutare a prevenire nuovi focolai epidemici pericolosi per la salute umana e animale.

E' quanto emerge da uno studio pubblicato su Science of the Total Environment da un gruppo di ricerca coordinato da Nicola Ferrari, docente al dipartimento di Medicina veterinaria e scienze animali dell’Università Statale di Milano.

“Le specie alloctone invasive (Ias) sono molto note a biologi e agricoltori in quanto sono una minaccia per la conservazione della biodiversità e fonte di ingenti danni economici, ma meno conosciute dagli operatori di sanità pubblica e animale”, afferma Ferrari. “Proprio in quanto specie introdotte dall’uomo al di fuori dal proprio areale naturale, le Ias possono infatti alterare la distribuzione e trasmissione degli agenti infettivi, portando all’insorgenza o alla re-insorgenza di malattie di rilevanza per la salute umana e animale”.

Analizzando le specie mammifere non autoctone presenti nella lista di interesse prioritario dell’Unione Europea, i ricercatori hanno identificato 345 agenti patogeni nel procione, 124 nello scoiattolo grigio e 75 nella nutria.

Le analisi hanno però sottolineato che in media solo il 30% dei patogeni che potrebbero ospitare questi mammiferi risulta finora identificato. Inoltre, considerando solo i patogeni di interesse per la sanità pubblica e animale quali la rabbia e la malattia di Lyme, le stime hanno mostrato come le attuali informazioni siano caratterizzate da elevati livelli di incertezza.

“I risultati emersi evidenziano come esista un forte gap conoscitivo verso le infezioni delle Ias, con una conseguente potenziale forte sottostima del rischio infettivo a esse legato", sottolinea Ferrari. "La mancanza di informazioni esaustive evidenzia la necessita di una maggiore e più organica raccolta dei dati epidemiologici su queste specie, nonché dello sviluppo di metodiche per la valutazione e mitigazione del rischio infettivo che tengano conto dei forti gap conoscitivi attualmente esistenti”.