La morte di Isabella Marzullo e la denuncia dei familiari sulla sanità negata
La figlia ha autorizzato la diffusione della sua testimonianza affinché la vicenda della madre non resti confinata nel silenzio privato, ma diventi occasione di conoscenza e riflessione collettiva
È una testimonianza dura, lucida e carica di dolore quella affidata a una lettera resa pubblica nei giorni scorsi da Maria Teresa Barone, figlia di Isabella Marzullo, scomparsa il 3 dicembre 2025 all’età di 74 anni. Una donna molto conosciuta e stimata nella comunità di Corigliano, ricordata come figura semplice, generosa e profondamente umana. La figlia ha autorizzato la diffusione della sua testimonianza affinché la vicenda della madre non resti confinata nel silenzio privato, ma diventi occasione di conoscenza e riflessione collettiva.
Un calvario durato un anno e mezzo tra diagnosi mancate e attese infinite
Secondo quanto ricostruito nella lettera, Isabella Marzullo aveva iniziato a lamentare forti dolori addominali oltre un anno e mezzo prima della diagnosi definitiva. Sintomi persistenti, descritti come insopportabili, che sarebbero stati ripetutamente sottovalutati e ricondotti a una presunta “malattia immaginaria” o all’artrite reumatoide. Esami prescritti tardivamente, referti ritenuti errati e lunghissime liste d’attesa avrebbero contribuito a ritardare l’individuazione di un tumore alla coda del pancreas di sette centimetri, scoperto solo nell’ottobre 2025 a Bologna, quando ormai non era più possibile intervenire chirurgicamente. Una diagnosi arrivata, secondo la famiglia, troppo tardi per colpa di gravi omissioni e mancanza di ascolto.
Dalla diagnosi tardiva alle difficoltà dell’assistenza finale
Dopo il ricovero al Sant’Orsola di Bologna, dove i familiari raccontano di aver trovato professionalità e umanità, Isabella Marzullo è rientrata in Calabria per trascorrere l’ultima fase della vita nella sua terra. Anche qui, però, la famiglia denuncia disservizi, burocrazia e carenze nell’assistenza domiciliare e nelle cure palliative, fino a episodi definiti umilianti nel trasporto e nella gestione ospedaliera. La lettera non chiede vendetta, ma giustizia e dignità, affinché – scrive la figlia – “quello che è successo a nostra madre non si ripeta mai più” e nessun altro paziente venga ignorato o lasciato solo nel dolore.