Mani con soldi
Mani con soldi

In Calabria c’è un prezzo che non compare su nessuno scontrino, una tassa occulta che si insinua nelle botteghe, nei cantieri, nei supermercati e perfino nei lavori pubblici: è il pizzo, la più silenziosa e feroce delle gabbie economiche imposte dalla ‘Ndrangheta. Più che una semplice estorsione, il pizzo è una regola non scritta. Un codice d’onore capovolto che impone l’omertà e il pagamento periodico in cambio di “protezione” – ma da chi? Dallo stesso sistema mafioso che la impone. È la mafia imprenditrice, la mafia che non spara solo, ma firma contratti, impone fornitori, assume dipendenti “segnalati” e decide chi lavora e chi fallisce. Non si tratta più solo di bustarelle o minacce: è un'intera economia infiltrata, controllata, paralizzata.

Il racket 2.0: estorsioni travestite da affari

Oggi il pizzo ha nuove facce. La ‘Ndrangheta impone fornitori di fiducia, obbliga a scegliere specifiche ditte per lo smaltimento dei rifiuti, la vigilanza o i trasporti. Apparentemente è solo una raccomandazione, ma dietro c'è un meccanismo di controllo capillare. Questo modello — definito dagli studiosi racket 2.0 — è più subdolo del passato perché si camuffa da normalità. È mafia che si fa manager, che detta legge nei consigli d’amministrazione più che nei vicoli bui.

Gli ultimi colpi alla ‘Ndrangheta

Le indagini non si fermano. A Cosenza, ad esempio, l’operazione “Recovery” ha scoperchiato un sistema di estorsione legato ai lavori di restauro del convento di San Francesco. Gli imprenditori coinvolti dovevano versare quote mensili ai clan per continuare a lavorare. A Reggio Calabria, la cosca Labate imponeva alle imprese della grande distribuzione forniture alimentari da aziende "amiche" e quote obbligatorie in denaro, trasformando il pizzo in una quota fissa sulle merci vendute. Ogni arresto è un colpo al cuore del sistema, ma anche la prova di quanto sia ramificato e sofisticato il racket.

Un’economia ostaggio della paura

Secondo stime indipendenti, oltre il 50% delle piccole imprese calabresi ha subito almeno una richiesta estorsiva nel corso della sua attività. Alcuni pagano in silenzio per sopravvivere. Altri denunciano — e spesso restano soli. Chi cede al pizzo alimenta il potere mafioso. Chi resiste rischia. Eppure, proprio da questi imprenditori coraggiosi, spesso ignorati o lasciati senza tutele, parte la scintilla del cambiamento.

Ribellarsi si può, ma non da soli

Movimenti come Addiopizzo, seppur nati altrove, hanno ispirato anche in Calabria reti di resistenza, sportelli antiracket e campagne di sensibilizzazione. La sfida è rompere l’isolamento, far sentire la voce di chi dice no. Ma non basta il coraggio individuale: serve una risposta collettiva. Dallo Stato che deve garantire sicurezza e tutele legali, ai cittadini che devono scegliere da chi comprare, fino ai media che devono raccontare senza filtri la verità sulla mafia. Il pizzo è una tassa di sottomissione. Combatterlo significa riscrivere le regole dell’economia e della convivenza civile. In Calabria, ogni negozio che si libera dal racket è una bandiera di libertà. E ogni denuncia è un colpo alla gola del potere criminale.