Caporalato in Calabria, il prezzo umano del nostro cibo
La ‘ndrangheta gioca un ruolo decisivo: nulla si muove, soprattutto nel comparto agricolo, senza il suo consenso

La Calabria, splendida terra del sud Italia, è anche uno degli epicentri più preoccupanti del fenomeno del lavoro nero e del caporalato. Secondo i dati diffusi nel 2024 dall’Istat e dal Ministero del Lavoro, la regione registra il più alto tasso di lavoro irregolare d’Italia: ben il 19,6% degli occupati lavora in condizioni di illegalità, un dato che si traduce in circa 117.400 persone coinvolte. A confronto, la media nazionale si attesta all’11,3%, rendendo evidente la gravità del fenomeno calabrese.
Le aree in Calabria
Il valore economico del lavoro sommerso nella regione è stimato in circa 2,5 miliardi di euro all’anno, pari all’8,3% del valore aggiunto complessivo prodotto dalla Calabria. Si tratta della percentuale più alta registrata sul territorio nazionale. Questo “sommerso” non solo sottrae risorse all’economia legale, ma alimenta circuiti di illegalità, evasione fiscale e sfruttamento. Uno degli aspetti più critici è rappresentato dal caporalato agricolo, che si concentra principalmente nella Piana di Gioia Tauro, nella Locride e nella zona del Crotonese. Qui, i lavoratori — in gran parte migranti provenienti dall’Africa subsahariana, dal Nord Africa e dall’Asia meridionale — vengono reclutati in modo informale da intermediari illegali, i cosiddetti caporali, che li trasportano nei campi per lunghe giornate di lavoro, in condizioni disumane e per pochi euro al giorno. Spesso, il reclutamento avviene direttamente nei centri di accoglienza o in baraccopoli informali, come quella che fino a poco tempo fa esisteva a San Ferdinando.
Criminalità e caporalato
Un'indagine condotta dall’Osservatorio Placido Rizzotto, inserita nel “Rapporto Agromafie e Caporalato 2024”, evidenzia come la filiera dello sfruttamento sia sempre più professionalizzata e gestita da vere e proprie organizzazioni criminali. In particolare, la ‘ndrangheta gioca un ruolo decisivo: nulla si muove, soprattutto nel comparto agricolo, senza il suo consenso. Gli stessi caporali spesso devono ottenere un “nulla osta” per operare nei territori controllati dalle cosche. Il fenomeno colpisce le categorie più fragili della società: migranti senza documenti, donne (spesso sottopagate e vittime anche di abusi sessuali), giovani in cerca di un primo impiego e persone in condizioni di estrema povertà. A loro viene negata qualsiasi tutela: niente contributi, niente assicurazione, nessun contratto. Spesso vivono in condizioni igienico-sanitarie drammatiche, in alloggi di fortuna privi di acqua, luce e servizi essenziali. Nonostante alcuni sforzi istituzionali, come l'introduzione della Legge 199 del 2016, che ha inasprito le pene per il caporalato e previsto strumenti di protezione per le vittime, i risultati sul campo sono ancora parziali. Le forze dell’ordine, i sindacati e le associazioni di volontariato fanno il possibile, ma il fenomeno è radicato e difficile da estirpare senza una strategia integrata e a lungo termine. Iniziative come quelle promosse dalla FLAI-CGIL, che offre assistenza legale e sindacale ai lavoratori sfruttati, e i progetti di accoglienza e formazione agricola etica, rappresentano dei segnali di speranza. Tuttavia, servono più controlli, più ispettori del lavoro, maggiore cooperazione tra enti locali e nazionali, e soprattutto una volontà politica forte per restituire dignità e diritti ai lavoratori della terra. Il caporalato non è solo un problema agricolo o meridionale: è una piaga nazionale che tocca la legalità, i diritti umani e l’equità del mercato del lavoro. Combatterlo significa non solo applicare la legge, ma cambiare cultura, dare voce agli invisibili e costruire un'economia più giusta per tutti.