Di Massimo Mastruzzo*

Ogni Natale, ogni Pasqua, ogni estate, il copione si ripete. I riflettori dei media nazionali si accendono sul caro-biglietti: voli e treni dai prezzi proibitivi, famiglie divise, studenti e lavoratori costretti a programmare con mesi di anticipo il “rientro a casa”. Un problema reale, senza dubbio. Ma profondamente incompleto.

Perché chi parte dalla Calabria non lo fa per una vacanza o un weekend fuori porta. Lo fa per lavorare, studiare, curarsi. Lo fa perché restare, troppo spesso, non è un’opzione. E dietro parole rassicuranti come fuorisede, mobilità o rientro dei cervelli, si nasconde una realtà molto più dura: l’emigrazione forzata.

Il prezzo dei biglietti non è la causa di tutto questo. È solo uno degli effetti più visibili.

La vera domanda, che raramente trova spazio nel dibattito pubblico, è un’altra:
è normale che nel 2025 una regione come la Calabria continui a perdere i suoi figli come accadeva settant’anni fa?
Ed è accettabile che lo Stato consideri questo fenomeno inevitabile?

I numeri dell’ISTAT non lasciano spazio a interpretazioni. Nel biennio 2023-2024, il Mezzogiorno ha registrato un saldo migratorio interno negativo di 116.000 residenti. La Calabria è tra le regioni più colpite, con un saldo di –5,0 per mille abitanti, uno dei peggiori d’Italia. In alcune aree il fenomeno assume contorni drammatici: la provincia di Vibo Valentia registra un dato da vera emergenza sociale, con –12,7 per mille.

Nel solo 2024, dai Comuni del Mezzogiorno sono partite oltre 401.000 persone, mentre gli arrivi si sono fermati a circa 349.000. Anche qui la Calabria segue un copione ormai consolidato: più partenze che ritorni, anno dopo anno, senza inversioni di tendenza.

Se si allarga lo sguardo al lungo periodo, il quadro diventa ancora più allarmante. Tra il 2001 e il 2024, il Mezzogiorno ha perso oltre 2,7 milioni di residenti, in gran parte giovani e persone in età lavorativa. Una quota rilevante di questa emorragia riguarda proprio la Calabria, che continua a svuotarsi di energie, competenze e futuro.

Eppure, a fronte di questi dati, il racconto politico nazionale insiste su medie e percentuali: cresce l’occupazione, migliorano gli indicatori macroeconomici. Ma la domanda resta inevasa: crescita per chi? E a quale prezzo territoriale?

La narrazione mediatica si ferma spesso all’aneddoto: l’intervista in stazione, all’aeroporto, al terminal dei bus.
“Torno giù per le feste”.
“Rientro al paese”.
“Vado a trovare la famiglia”.

Quasi mai, però, la stessa domanda viene rivolta a chi governa:
perché dalla Calabria si continua a partire?
Perché questa regione viene trattata come un serbatoio umano per il resto del Paese?
Perché lavoro, servizi essenziali e infrastrutture restano un privilegio geografico?

Finché il dibattito resterà confinato al costo di un biglietto aereo o ferroviario, l’esodo calabrese continuerà a essere raccontato come un disagio stagionale. Ma i numeri dicono altro: non è un’emergenza temporanea, è una questione strutturale, politica e nazionale.

In questo silenzio istituzionale, una delle poche realtà che ha portato con continuità il tema dell’emigrazione interna al centro del dibattito è il Movimento Equità Territoriale, che da anni denuncia, dati alla mano, l’abbandono sistematico del Mezzogiorno e della Calabria in particolare, rivendicando pari diritti territoriali in termini di lavoro, sanità, trasporti e servizi.

Continuare a ignorare l’esodo calabrese significa accettare un’Italia divisa, diseguale, dove alcune regioni sono destinate a crescere e altre a svuotarsi.
E questa, più del costo di qualsiasi biglietto, è la vera emergenza nazionale.

*Direttivo nazionale MET
Movimento Equità Territoriale