Tortura in carcere: al via il controesame di Alessio Peluso, detenuto pestato da agenti a Reggio Calabria
Il procedimento coinvolge quattordici persone

Una vicenda dai contorni oscuri, che solleva interrogativi inquietanti sul rispetto dei diritti umani dietro le sbarre. Si è aperto con il controesame in aula il momento cruciale del processo che vede come protagonista Alessio Peluso, 32 anni, detenuto napoletano che sarebbe stato selvaggiamente aggredito all'interno del carcere “San Pietro” di Reggio Calabria. Secondo l’accusa della Procura, Peluso sarebbe stato vittima di un vero e proprio pestaggio da parte di una squadra di agenti della polizia penitenziaria e del loro comandante dell’epoca, Stefano La Cava. Non si tratterebbe di un semplice e isolato caso di abuso, ma di una condotta sistematica e brutale, tale da far scattare, tra le ipotesi contestate, anche quella gravissima di tortura.
Quattordici imputati, undici sono agenti
Il procedimento coinvolge quattordici persone: undici poliziotti penitenziari, il comandante del periodo, Stefano La Cava, oltre a un medico e un infermiere, quest’ultimi chiamati in causa per contestazioni estranee alle presunte violenze ma comunque legate alla gestione dell’episodio. Il controesame di Peluso, tenutosi in presenza, rappresenta un momento fondamentale per ricostruire con chiarezza quanto accaduto all’interno delle mura del carcere. L’uomo ha già fornito versioni dettagliate delle violenze subite, raccontando di essere stato picchiato selvaggiamente, con modalità che – secondo l’accusa – travalicano ogni limite della legalità e dell’etica professionale.
Il peso della parola “tortura”
L’utilizzo del termine "tortura" in un’aula di giustizia italiana è tutt’altro che banale. Introdotto nel codice penale solo nel 2017, questo reato ha ancora una giurisprudenza limitata, ma pesantissima sul piano morale e politico. Se le accuse venissero confermate, si tratterebbe di uno dei casi più gravi mai registrati in Calabria in ambito carcerario.
Un processo simbolico
Il caso Peluso è diventato un simbolo, non solo per la sua gravità, ma per ciò che rappresenta: la difficoltà di denunciare le violenze nelle carceri, il silenzio che spesso avvolge questi episodi, la vulnerabilità dei detenuti privati della loro voce e della loro dignità. È anche un banco di prova per la giustizia, chiamata a giudicare non solo i singoli imputati, ma l’intero sistema che dovrebbe garantire la sicurezza nel rispetto dei diritti fondamentali.
Prossime udienze
Il processo proseguirà con l’ascolto di ulteriori testimoni e la ricostruzione dettagliata dei fatti. Gli occhi della stampa e dell’opinione pubblica sono puntati sull’esito di questo procedimento, che potrebbe scrivere una pagina importante nel contrasto agli abusi nelle strutture penitenziarie italiane. Per Alessio Peluso non si tratta solo di giustizia personale. Si tratta di far luce su un sistema che, quando si chiudono le porte delle celle, rischia troppo spesso di restare nell’ombra