Il miracolo di Sant'Angelo d'Acri, la forza di un culto che unisce una comunità
Dalla vocazione travagliata al miracolo della guarigione di un giovane, la storia del frate cappuccino che continua a ispirare fede e comunità in tutta la regione.
 
										È nella terra bagnata di lacrime che crescono fiori di speranza. Così la Calabria, con le sue fratture e le sue gambe stanche, ancora tiene alta la tradizione legata alla fede, al culto, ai saperi antichi trapassati di generazione in generazione. E le memorie sussurrate dagli anziani ai ragazzi diventano il racconto di un luogo, la geografia di un vissuto che, a fatica, tenta di spalleggiare la velocità dell’innovazione, che spazza via quell’ultimo soffio di convivialità dato dalla fede, dato dalla festa. Ma esistono ancora luoghi dove le persone si salutano chiamandosi per nome, dove la Chiesa è focolare e la piazza un salotto comune di gioco e parole. Dove ancora le spoglie di un Santo vengono guardate con rigoroso rispetto, dove l’uomo ricorda di essere carne e il vicino è un amico a cui tendere la mano.
Ho pensato questo ascoltando la vita di Sant’Angelo, patrono della città di Acri, celebrato oggi in quell’area urbana tra le montagne. La sua santità è legata a un inspiegabile miracolo avvenuto nel 2010 con la guarigione di Salvatore Palumbo, un giovane acrense in coma irreversibile dopo un incidente stradale, guarito dopo che la famiglia aveva posto accanto a lui il cordone del saio del Beato. Oggi il suo corpo riposa nella Basilica di Sant’Angelo d’Acri, meta di pellegrinaggi e simbolo di una fede che continua a parlare, a secoli di distanza, alla Calabria e all’intero Mezzogiorno.
Prima ancora di diventare una figura santificata, Sant’Angelo fu Lucantonio Falcone, figlio di una famiglia povera ma ricca di fede e virtù cristiane. Divenuto poi frate cappuccino con il nome di Angelo d’Acri, è oggi venerato come uno dei più grandi predicatori e missionari dell’Italia meridionale.
La memoria e la gratitudine tessono i minuti che creano la festa ad Acri, in un incontro di volti, persone, amici e parenti. Il sacro si mischia al profano, il segno della croce all’altare e la birra di fronte allo stand di panini. Lo sguardo di fratellanza durante la messa e la risata al compagno accanto.
Così, forse, è proprio questo che rende grande e immenso il valore delle piccole comunità che ancora si stringono nel nome del miracolo. Un miracolo che, forse, non è tanto legato alla cristianità, quanto al bisogno di sentirsi parte di qualcosa. Parte di una terra, parte di una speranza, parte della vita che non si limita al rigare dritto tra casa e lavoro. L’anima dei piccoli luoghi ricorda la bellezza dell’umanità, non razionalizza la grandezza delle cose che non possiamo spiegare. Così Sant’Angelo, il patrono di Acri, ci ricorda che la Calabria è anche questo, non il luogo del compianto, ma il luogo della celebrazione, dove la vita è vita perché ricorda il nostro essere umani, perché c’è qualcosa che va oltre gli occhi: è lo sguardo, è il guardare all’essenza delle persone, in un abbraccio che possa farci sentire, essere, a casa.