economia

Il 2025 si chiude per l’economia italiana come l’anno della consapevolezza adulta, un esercizio di equilibrismo tra una stabilità finanziaria inaspettata e una crescita reale che fatica a trovare un motore duraturo. Se guardiamo ai numeri freddi, l’Italia ha navigato in un corridoio strettissimo: con un Pil che si è attestato su una crescita dello 0,5%, il Paese ha evitato la recessione tecnica ma non è riuscito a scardinare quella stagnazione strutturale che lo vede prigioniero del cosiddetto prefisso zero. Questo dato, tuttavia, non deve essere letto isolatamente, ma inserito nel contesto di una crisi profonda dell’area euro, con la Germania che ha smesso di essere la locomotiva del continente, trasformandosi in una zavorra per la filiera manifatturiera del Nord Italia. In questo scenario, la resilienza italiana è stata superiore alle attese, sostenuta da un mercato del lavoro che, nonostante il calo demografico, ha mantenuto livelli di occupazione record, sfiorando i 24,2 milioni di unità.

Debito pubblico elevato e fiducia dei mercati tra spread basso e rating in miglioramento

Il vero paradosso strategico dell’anno risiede però nel settore del debito pubblico. Nonostante il superamento della soglia psicologica dei 3.000 miliardi di euro, lo spread Btp-Bund ha mostrato una solidità granitica, mantenendosi costantemente sotto i 100 punti base e scendendo in alcuni frangenti fino a 65. Questo fenomeno non è solo il risultato di una prudente gestione della cassa da parte del Tesoro, ma riflette un riposizionamento logico degli investitori istituzionali: in un’Europa dove la stabilità politica è diventata merce rara, la continuità istituzionale italiana è stata prezzata come un asset di valore. L’upgrade del rating a BBB+ da parte delle principali agenzie ha formalizzato questo stato di grazia, riducendo il costo medio del rifinanziamento, anche se i rendimenti reali restano elevati a causa di una politica monetaria della Bce che, pur avendo iniziato il ciclo di tagli, ha mantenuto un approccio "higher for longer" per gran parte dell'anno.

Inflazione rientrata, consumi prudenti e il nodo irrisolto del Pnrr

Sul fronte dell’economia reale, l’inflazione è tornata a livelli fisiologici, intorno all'1,7%, permettendo un timido recupero del potere d’acquisto dei salari. Tuttavia, questo non si è tradotto in un boom dei consumi. La psicologia del risparmiatore italiano si è fatta difensiva, con un aumento della propensione al risparmio precauzionale che segnala una fiducia ancora latente. Il Pnrr è rimasto il grande "convitato di pietra": pur essendo entrato nella fase finale della messa a terra, i ritardi strutturali nella spesa dei fondi destinati alle infrastrutture hanno limitato l'effetto moltiplicatore sul PIL che molti analisti davano per scontato. La capacità di spesa della Pubblica Amministrazione si è confermata il principale collo di bottiglia strategico, un rischio che erediteremo pienamente nel 2026.

Un Paese meno fragile ma chiamato a scelte decisive per il 2026

L'Italia non è più il rischio sistemico dell'eurozona, ma resta un’economia a bassa velocità che necessita di capitali privati per compensare l'inevitabile restrizione fiscale imposta dal nuovo Patto di Stabilità. La vera sfida non è più prevedere il default, ipotesi ormai relegata ai margini della logica finanziaria corrente, ma identificare i settori che sapranno estrarre valore in un contesto di scarsità di manodopera e alti costi energetici residui. Il settore bancario ha goduto di margini di interesse ancora generosi, ma la sfida della digitalizzazione e dell'AI nel fintech sta iniziando a erodere i vantaggi competitivi tradizionali. In conclusione, l'Italia esce dal 2025 con i conti in ordine ma con il fiato corto, pronta a una sfida 2026 dove la geopolitica e i nuovi dazi internazionali potrebbero rimettere in discussione il modello export-led che finora ci ha salvato.