Il paradosso del genuino: quando il cibo di tutti diventa un privilegio per pochi
In teoria, un pomodoro coltivato senza pesticidi rappresentare l’essenza stessa dell’alimentazione: nella pratica, però, il genuino è spesso un lusso
La qualità gastronomica, che per sua natura dovrebbe essere sinonimo di universalità, è invece diventata uno dei simboli più eloquenti delle disuguaglianze contemporanee. L’idea che il cibo genuino e di qualità sia un diritto di tutti è una filosofia nobile, ma nella realtà si infrange contro le barriere economiche e sociali che dividono chi può permettersi un prodotto autentico da chi deve accontentarsi del suo surrogato industriale.
In teoria, un pomodoro coltivato senza pesticidi o un formaggio fatto con latte fresco e senza additivi dovrebbe rappresentare l’essenza stessa dell’alimentazione: un ritorno alla terra, al lavoro umano, alla semplicità. Eppure, nella pratica, il genuino è spesso un lusso. Lo trovi esposto in botteghe raffinate, su banchi ben illuminati, accompagnato da etichette che raccontano storie di territorio, di tradizione, di passione. E soprattutto, da prezzi che lo rendono inaccessibile a molti.
Prodotti confezionati: simulano l’autenticità senza mai raggiungerla
Di contro, il surrogato si vende a pochi passi di distanza, al discount o nel supermercato, sotto forma di prodotti confezionati che simulano l’autenticità senza mai raggiungerla. Un pesto "alla genovese" in barattolo, dove il basilico si conta a spanne e l’olio d’oliva è stato sostituito dall’olio di semi; un prosciutto cotto dove il sapore è un’illusione costruita con aromi artificiali. È cibo progettato per riempire, non per nutrire; per sembrare qualcosa, non per esserlo.
La qualità, dicono i produttori, ha un prezzo. Ed è vero: coltivare senza pesticidi richiede più lavoro e più tempo; allevare animali rispettando il loro benessere significa accettare ritmi più lenti e produzioni più ridotte. Ma questo prezzo non è solo un dato tecnico: è anche un riflesso delle logiche di mercato che spingono il prodotto genuino verso una nicchia, rendendolo un bene di lusso. Non si paga solo il cibo in sé, ma il valore simbolico che gli viene attribuito. Una pagnotta di pane fatto con grani antichi non è solo pane: è status, è narrazione, è differenziazione.
Il cittadino ha un ruolo cruciale
Eppure, la responsabilità non ricade soltanto sul mercato o sui produttori. Anche il cittadino ha un ruolo cruciale in questo sistema. Se da un lato è vittima delle disuguaglianze, dall’altro è complice di una cultura del consumo che alimenta lo stesso sistema che critica. Pretendere pomodori freschi a dicembre significa accettare un modello di produzione intensiva che fa largo uso di serre riscaldate, pesticidi e tecniche che svuotano il suolo di ogni vitalità. Voler mangiare carne tutti i giorni, senza interrogarsi sulla sua origine, significa chiudere un occhio – o entrambi – sugli allevamenti intensivi, dove gli animali vengono trattati come macchine e le conseguenze ambientali ed etiche sono devastanti.
Il consumo critico: moda o necessità
Il consumo critico non è una moda, ma una necessità. Significa accettare la stagionalità dei prodotti, mangiare meno carne ma di migliore qualità, scegliere piccoli produttori locali anche se richiede uno sforzo logistico ed economico. Significa rinunciare a un’idea di abbondanza perpetua e low-cost per abbracciare un modello alimentare che sia sostenibile per il pianeta e per le persone.
Ed ecco che si crea la grande frattura: da un lato, un popolo che mangia per necessità, scegliendo i prodotti più economici perché è l’unica opzione accessibile. Dall’altro, una minoranza che può permettersi di trasformare ogni pasto in un’esperienza, dove la qualità non è un’eccezione, ma la regola. Questa spaccatura non riguarda solo il gusto o il piacere, ma anche la salute. Perché spesso il cibo di scarsa qualità non è solo meno buono: è anche meno nutriente, più carico di zuccheri, grassi e sostanze chimiche.
Il sistema premia la quantità sulla qualità
C’è un’ironia crudele in tutto questo: la terra, che un tempo era il punto di partenza di ogni cibo, è diventata il simbolo di ciò che è esclusivo. Il contadino che un tempo sfamava il villaggio oggi vende le sue eccellenze a chi può permettersele, mentre i prodotti standardizzati invadono le tavole di chi vive con meno. Se il cibo genuino è uguale per tutti nella sua essenza, non lo è più nella sua accessibilità. E finché il sistema continuerà a premiare la quantità sulla qualità, i surrogati avranno sempre il sopravvento. Non si tratta solo di un problema economico, ma di un fallimento culturale: abbiamo accettato l’idea che il cibo possa essere stratificato, che ciò che mangiamo dica chi siamo e quanto valiamo.
Cibo per tutti, non privilegio per pochi
La soluzione non è semplice, ma deve partire da un cambiamento culturale. Serve un’educazione che vada oltre il prezzo e insegni il valore reale del cibo, che promuova il consumo critico e responsabilizzi il cittadino. Perché il sistema non cambierà mai se la domanda continuerà a privilegiare prodotti fuori stagione e carne a basso costo. Solo se impariamo a scegliere con coscienza, rispettando i ritmi della natura e i limiti del pianeta, possiamo sperare di rendere la qualità accessibile a tutti. Il genuino non può essere un lusso: deve tornare a essere ciò che è sempre stato nella sua essenza più pura, cibo per tutti, non privilegio per pochi.
Di contro, il surrogato si vende a pochi passi di distanza, al discount o nel supermercato, sotto forma di prodotti confezionati che simulano l’autenticità senza mai raggiungerla. Una "soppressata" industriale, dove il sapore affumicato viene da aromi chimici e la carne è il risultato di scarti riassemblati; una "nduja" che porta il nome di Calabria ma è piena di grassi di dubbia provenienza e peperoncino generico. È cibo progettato per evocare una tradizione, non per onorarla; per sembrare qualcosa, non per esserlo.