Un colpo di lupara, una strada di campagna, un’altra vita spezzata. La Calabria è di nuovo costretta a fare i conti con una violenza brutale, spesso invisibile alle cronache nazionali, ma che scava ogni giorno un solco più profondo nella coscienza collettiva di questa terra. San Pietro di Caridà, Dinami, Limbadi, Taurianova: luoghi che da troppo tempo convivono con agguati e omicidi a sangue freddo, che si consumano nell’indifferenza, nel silenzio, nell’assuefazione. Solo negli ultimi mesi, la cronaca ha registrato una sequenza impressionante di delitti. Uomini giovani, spesso operai, padri, fratelli, uccisi con modalità da esecuzione in zone montane, strade interpoderali, campagne isolate. Luoghi dove lo Stato sembra lontano, e dove la legge che vige è ancora troppo spesso quella del più forte o del più spietato. Michele Vallelonga, 27 anni, è solo l’ultimo nome di una lunga lista. Prima di lui, Domenico Oppedisano, Stefano Cirillo, Alessandro Morfei. Le vittime cambiano, la dinamica resta: armi da fuoco, agguati studiati, silenzi pesanti. A pochi chilometri di distanza e nel raggio di appena tre anni, quattro omicidi. Non sono episodi isolati. Sono l’indicatore di una deriva profonda.

Una terra che non riesce a liberarsi dal peso della violenza

La domanda è tanto semplice quanto drammatica: come può crescere una terra insanguinata? Come può un territorio attrarre turismo, investimenti, opportunità, se la sua immagine è continuamente ferita da episodi del genere? Se la vita di un giovane può essere spenta senza che nessuno veda o parli? La Calabria è una terra piena di risorse: bellezze naturali, cultura, eccellenze agricole, energie giovani che resistono e si impegnano. Ma tutto questo è soffocato da una piaga antica, che non è solo criminale, ma anche sociale e culturale. La normalizzazione della violenza è il primo passo verso la rassegnazione. Ed è proprio la rassegnazione che permette a questi delitti di ripetersi.

Lo Stato c’è, ma non basta: serve una mobilitazione collettiva

I carabinieri indagano, la magistratura lavora, ma non basta. Finché la comunità resta muta, finché il tessuto sociale non reagisce, finché il grido di dolore non diventa azione collettiva, questi omicidi resteranno solo numeri, fascicoli in un archivio. La Calabria ha bisogno di più Stato, ma anche di più coraggio. Serve la scuola, servono i sindaci, serve la Chiesa, serve il mondo associativo. Serve la politica, quella vera, che non si gira dall’altra parte e che smette di considerare questi episodi come un destino inevitabile.

Il prezzo dell’omertà è il futuro

Ogni colpo di fucile non uccide solo una persona. Uccide anche la speranza. Uccide la possibilità che un ragazzo resti in Calabria a costruire la sua vita. Uccide la fiducia in un domani diverso. Quando una comunità accetta la violenza come parte del paesaggio, perde lentamente la sua umanità. E la Calabria, che di umanità ne ha da vendere, non può permetterselo. Non si può chiedere sviluppo, lavoro, legalità, se prima non si afferma un principio fondamentale: che ogni vita conta, che ogni omicidio deve avere un nome, un colpevole, una condanna. Che nessuno può morire così, in silenzio. La Calabria può rialzarsi. Ma solo se decide, una volta per tutte, di non convivere più con l’orrore. Solo se smette di avere paura. Solo se inizia a chiedere verità e giustizia con la voce di tutti. Perché la dignità di una terra si misura anche da come reagisce di fronte al sangue versato.