Gusto ribelle: La traccia invisibile degli scarti, dove finisce ciò che non mangiamo
Questi materiali, una volta considerati rifiuti, sono oggi spesso reinseriti in circuiti paralleli che promettono sostenibilità, ma nascondono contraddizioni profonde

Nel cuore dell'industria alimentare, ogni giorno, tonnellate di materiali scartati vengono prodotti, trasformati, e spesso nascosti dietro la retorica della sostenibilità. Ma che cosa sono, davvero, questi scarti? E dove finiscono? Gli scarti alimentari sono tutto ciò che viene rimosso durante il processo di produzione, trasformazione e distribuzione del cibo: bucce, torsoli, ossa, lische, residui di lavorazione, ma anche prodotti danneggiati, non conformi o prossimi alla scadenza. In ambito industriale, rientrano tra questi anche i sottoprodotti della filiera agroalimentare: polpe, semi, siero del latte, grassi, parti fibrose.
Questi materiali, una volta considerati rifiuti, sono oggi spesso reinseriti in circuiti paralleli che promettono sostenibilità, ma nascondono contraddizioni profonde. Una parte viene macinata, compressa, trattata chimicamente e restituita al mercato sotto nuove forme: ingredienti invisibili in mangimi, integratori e prodotti industriali. Un ciclo apparentemente virtuoso, che però più che recuperare valore, maschera una strategia di sfruttamento degli scarti come risorsa economica a basso costo. La trasformazione, dunque, non è neutra: produce valore per pochi, lasciando dubbi su qualità, destinazione e reale beneficio collettivo. Il problema non è la trasformazione in sé, ma l’opacità che la circonda: pochi sanno dove finiscono, come vengono trattati, chi li controlla, e soprattutto, chi ci guadagna davvero.
Il rapporto
Secondo il rapporto "Il Riciclo in Italia 2024" della Fondazione Sviluppo Sostenibile, il 20,8% dei materiali utilizzati dall'industria nel 2024 proviene dal riciclo dei rifiuti, quasi il doppio rispetto alla media europea. Ma dietro questo dato apparentemente virtuoso si cela una verità meno edificante. La crescita del riciclo non è sempre sinonimo di trasparenza o reale sostenibilità. In molti casi, il recupero degli scarti diventa una voce in bilancio da ottimizzare, non un gesto responsabile verso l’ambiente. Alcune aziende investono in tecnologie credibili per la valorizzazione dei sottoprodotti, ma altre approfittano delle zone grigie normative per ottenere profitti senza preoccuparsi né della qualità delle trasformazioni né della loro tracciabilità. Così, ciò che dovrebbe essere recupero diventa spesso opacità sistemica e greenwashing. La mancanza di tracciabilità e controlli rigorosi può portare a pratiche opache: scarti che rientrano nel ciclo produttivo senza adeguate verifiche, con rischi per la salute pubblica e l’ambiente. La gestione inadeguata degli scarti alimentari contribuisce all’inquinamento, alla perdita di biodiversità e al cambiamento climatico. Ma ha anche un costo sociale: il riciclo di scarti in alimenti ultra-processati o di seconda scelta perpetua la disuguaglianza, offrendo prodotti meno nutrienti alle fasce più vulnerabili della popolazione. Per questo è fondamentale attivare sistemi di tracciabilità efficaci, capaci di monitorare l’intero percorso degli scarti, dalla produzione al riutilizzo. Solo una maggiore trasparenza e una vera assunzione di responsabilità possono garantire che la gestione degli scarti alimentari contribuisca a un’economia circolare autenticamente sostenibile e giusta. Perché la questione degli scarti non è solo una questione tecnica o di efficienza industriale: è un problema politico, culturale, ambientale. Ignorarla significa accettare un sistema dove ciò che avanza si trasforma in profitto per pochi e in scarsa qualità per molti. Affrontarla è un passo necessario verso un futuro che non confonda il riciclo con lo smaltimento dell’etica. Perché il modo in cui trattiamo ciò che consideriamo scarto rivela molto di più di quanto immaginiamo: è lo specchio della nostra gerarchia dei valori, delle nostre priorità politiche, del tipo di società che siamo disposti ad accettare. Una società che finge di valorizzare i rifiuti solo per massimizzare il profitto, senza preoccuparsi di chi paga davvero il costo ambientale e sociale di queste operazioni, non è una società circolare: è una macchina che ingoia il superfluo e restituisce disuguaglianza. Gli scarti sono il punto cieco del capitalismo alimentare, e rivelano ciò che preferiremmo non vedere: che il cibo, come ogni altro bene, è gestito secondo logiche che escludono, separano, stratificano. E che dietro ogni residuo c'è sempre una scelta politica.