Le foto del reportage sono di Valentina Procopio
Le foto del reportage sono di Valentina Procopio

di Maria Rita Parisi - Luca ha 20 anni, Jonathan ne ha 14. Uno è nato a Catanzaro, l’altro a Conflenti, ma entrambi gravitano nella zona del paese del secondo, il Reventino - Savuto. Ed è proprio in questo paese che, seduta a tavola con loro, durante un pranzo ricco di piatti tipici del posto, servito su tavolate di legno dentro una villetta, ascolto la loro interessante conversazione. Parlano con gran fervore non dell’uscita in discoteca della sera prima, ma delle differenze tra le “passate” di tarantella tipiche dell’area riggitana, dal “sonu paru” - eseguite dall’organetto a due bassi - e quelle “loro”, dal ritmo più travolgente - in cui a farla da padrone è “il quattro bassi” -, in relazione al ballo che entrambe accompagnano: il secondo  “slacciato” dai dettami del primo, ossia il contatto tra i danzatori e la presenza del “mastru di ballu” ( il solo che può decidere chi entra nella “rota” e quando ne deve uscire).

 A mangiare con noi c’è anche Loris, fratello di Jonathan, appena diventato maggiorenne, che per 10 anni, a partire dai suoi 6 anni - racconta -, ha studiato questo stesso strumento nelle scuole di musica, incontrando un repertorio di composizioni d’autore e entrando in contatto solo superficialmente con quello tradizionale del suo paese. Fino al giorno in cui, due anni fa, ha scoperto che quella ricchezza di suoni ce l’aveva in casa, grazie all’etnomusicologo Christian Ferlaino, il quale, entrato in casa di Loris il giorno della festa per i suoi 16 anni, ha riconosciuto il luogo in cui 20 anni prima aveva registrato il nonno, rendendosi subito disponibile a condividere quelle registrazioni (che sono diventate parte dell’archivio sonoro del Reventino-Savuto, inaugurato l’anno scorso) con il nipote, che non lo aveva mai ascoltato suonare dal vivo. E gli ha permesso quindi di avvicinarsi a un tipo di insegnamento - il tramandamento orale - che da allora ha quasi completamente sostituito, nel suo cuore e nella sua pratica, quello “accademico”. 

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L’undicesima edizione del festival, in cui i giovanissimi diventano maestri

Ed è proprio Ferlaino che ha spiegato come ragazzi quali Loris, a partire da 4 - 5 anni fa, si sono appassionati a questa musica (nei confronti della quale, prima di capire quanto fosse apprezzata e ricercata, aveva prevalso il senso di vergogna ereditato dalla generazione del boom economico) e alle occasioni in cui veniva suonata  (le feste tradizionali come l’“ammazzamento” del maiale o della “crapa” e la vendemmia, quelle private come matrimoni e serenate - realizzate spesso in vista, o in auspicio, di questi ultimi -, ma anche le processioni e i pellegrinaggi religiosi) e hanno di conseguenza iniziato a prendere parte attiva (fino a diventare, quest’anno - Loris, che di cognome fa Paola, insieme all’altro organettista Daniele Gallo - “maestri” a loro volta) alla realizzazione del festival incentrato - come recita il sottotitolo - sui “tramandamenti della cultura musicale del Reventino - Savuto”, di cui il ricercatore e musicista è coordinatore scientifico e che, durante la sua XI edizione, svoltasi dal 22 al 26 luglio, è stato teatro delle scene appena riportate, come di molte altre altrettanto significative per capire il clima che si è respirato a Conflenti durante questi cinque giorni.

Un clima che conferma quanto sia stata giusta l’intuizione di chi ha voluto, approfittando della somiglianza tra il nome del paese che lo ospita e l’ultima delle parole della formula tipica del lieto fine delle fiabe, chiamare questa “festa di comunità” (specificazione della natura di questo festival - che è un progetto co-finanziato dalla Regione Calabria in quanto “manifestazione di grande interesse turistico” - esplicitata dagli stessi organizzatori e riportata in locandina) “Felici e Conflenti”.

“Un banchetto lungo cinque giorni”

La felicità è quella del farsi portatori di una tradizione di suoni da condividere con le persone che, sempre più numerose, accorrono a un evento strutturato come “un banchetto lungo cinque giorni” - specifica Christian - dove il suonare insieme è riproposto come un’occasione solidale e  “l’apprendimento coincide con la performance”, com’era appunto nei festeggiamenti della società orale, in cui la convivialità a tavola era sempre accompagnata da una musica suonata da chi aveva maestria e in parte anche da chi stava imparando, e apprendeva quindi non attraverso spiegazioni di regole e principi ma guardando chi già sapeva fare e facendo a sua volta.

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I laboratori

E quindi spazio, la mattina e spesso anche il pomeriggio, ai laboratori di strumenti tradizionali (oltre all’organetto, la zampogna/surdulina e, negli ultimi due giorni, anche la lira calabra, insegnata da Francesco Denaro), di canti polivocali e di tarantella (naturalmente della zona del Reventino), condotti dai membri dell’associazione che dà il nome al festival, ma con la raccomandazione ai partecipanti di mettersi in gioco durante i “pranzi sociali” e le feste serali, ma anche nelle occasioni di incontro tra loro o magari con qualche anziano, mettendo in pratica quanto appreso senza temere il confronto con chi è a un livello superiore.

Prova di quanto questa raccomandazione sia stata accolta è stato il sentire, in qualche momento del pomeriggio non impegnato dalla partecipazione a una delle tante attività previste dal programma del festival, incrociare tre voci che provavano un canto “all’arietta” (tipico del lato marino della zona), d’amore o di sdegno, insegnato qualche ora prima da Giuseppe Gallo (con l’indicazione che ognuno si cimentasse con tutte le parti, perché nel mondo popolare i cantori e le cantrici facevano di necessità virtù adattando l’altezza dell’emissione sonora della propria ugola alla tonalità dello strumento disponibile in quel momento) o una richiesta fatta a lui dagli aspiranti cantori di cimentarsi anche con quello - più difficile perché dalla ritmica più indefinita - “ara pietra iancara”, proveniente dalla montagna. Ma anche l’assistere alla trasformazione di quelli che in quei giorni stavano imparando, grazie ad Andrea Bressi, a ballare la tarantella reventinese, da tranquilli commensali nel pranzo appena terminato a intraprendenti interpreti di una danza che in questa zona prevede una “coreografia” a quattro, in cui la vera sfida, più che imparare i passi da fare (relativamente semplici rispetto a quelli di altre tarantelle, anche di altre zone della stessa Calabria), è coordinarsi attraverso lo sguardo nello spirito di un fare e di un apprendere che non può che essere collettivo e non competitivo. E, non ultimo, il vedere gli allievi di Ferlaino Peppe Muraca, tra la fine del laboratorio di zampogna della Presila e il pranzo che si sarebbe svolto nel luogo del loro apprendimento da lì a poco, impegnarsi per imparare a “incannare” quelle lasciate volutamente senza canne dai maestri, che l’avevano costruita, e quindi - come ha sottolineato il primo dei suddetti maestri - dare loro “un suono più personale”.

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La zampogna, emblema di una società “armonica”

Anzi, dei suoni (al plurale), visto che peculiarità di questo strumento (che etimologicamente significa “sinfonia”) è proprio essere ricco di “armonici” (ossia i multipli della frequenza di un suono base/“fondamentale”) - spiega Sergio Di Giorgio, figura storica della musica e della ricerca sul campo in Calabria, durante la presentazione del suo libro “Nella mente della zampogna” (svoltasi in uno dei pomeriggi del festival) -  ed emblematica per questo di una società - quella agro-pastorale - in cui la ricerca dell’accordo (oltre che tra i suoni, anche tra le persone, tra quelle e la comunità, tra la musica e la vita quotidiana, tra l’uomo e l’ambiente…) non ha ancora ceduto il posto all’ansia di individuazione (della “nota” esatta, propria del sistema musicale temperato, così come della parola scritta che definisce, “oggettifica”, separa e “media”, e anche di uno spazio di “spettacolo”  - per dirla con Debord - inteso come esibizione fine a se stessa, in un mondo in cui il visivo è predominate rispetto all’uditivo). In questa società lo zampognaro “rinegozia la sonata attraverso il proprio corpo e la propria memoria”, ma non prescindendo mai dal sistema relazionale e dal contesto, anche naturale. 

Ed è proprio la natura, ha ricordato il componente dello storico gruppo Re Niliu - che tanto ha contribuito a far conoscere la musica popolare calabrese - a darci esempi (da seguire) di tacite accordature tra i suoi esseri, a esempio nella ritmica dell’orchestra prodotta dal canto di molte cicale o da quello degli assioli, eseguito rigorosamente a due a due.

Il suono nel Reventino: un passato che diventa strumento sociale e pedagogico

L’analisi dell’approccio del passato per quanto riguarda le interazioni tra uomo e animale/pianta attraverso il suono è stata al centro di un altro incontro molto partecipato, il seminario “Oltre l’Umano. Ecologia del Suono nel Reventino”, condotto da Ferlaino, che ha sottolineato come tale analisi, che mette in luce come sia possibile un equilibrio tra affermazione di identità culturali e convivenza multispecie, sia “utile per aprire nuove strade per il futuro”, in vista della necessità, ormai imprescindibile, di “cambiare paradigma” per “affrontare la questione della crisi climatica”.

Il ricercatore ha parlato anche del suo progetto europeo da poco conclusosi “LoMus - Local Sound for a New Musicality, Enhancing Musical Participation through a Local Sonic Practice” (realizzato all’Unical in collaborazione con l’Università di Edimburgo e facente capo ai fondi del programma post-doc Marie Curie, e grazie al quale è stato nominato membro del consiglio direttivo del gruppo di ricerca internazionale “Multispecies Sound and Movement”). Si è trattato di una sperimentazione sull’inclusione musicale nei confronti di partecipanti che, per colpa di giudizi, pressioni e modelli rigidi, si ritenevano non portati per quest’arte, ma che invece hanno scoperto di poter suonare prendendo parte a dei laboratori partecipativi che hanno proposto “percorsi liberi da condizionamenti e aspettative normative, in cui l’esperienza musicale potesse essere vissuta come un processo di esplorazione individuale e condivisione collettiva”. Il tutto utilizzando, insieme a tecniche contemporanee come l’improvvisazione e le partiture grafiche e verbali, gli oggetti sonori della tradizione locale: giocattoli che emettono suoni, strumenti rituali e “minori”, richiami da caccia e oggetti d’uso quotidiano convertiti all’uopo. Dimostrando così che la musicalità è tutt’altro che un privilegio di pochi, ma anzi una qualità diffusa e universale, se si favoriscono le condizioni per tornare all’antico senso/valore pedagogico/sociale del fare musica insieme.

Un ecosistema culturale complesso

Ed è proprio quello che vuole (e riesce a) fare “Felici e conflenti”, che “negli anni ha dato vita a un ecosistema culturale complesso, capace di connettere memoria, formazione e partecipazione attiva” - sostiene Ferlaino - confermandosi “uno spazio in cui la trasmissione orale diventa pratica condivisa e strumento per immaginare nuovi modi di abitare i territori”, visto che, oltre a richiamare moltissimi turisti e appassionati di musica e cultura popolare, ha favorito il ritorno periodico, durante la settimana del festival, dei tanti emigrati dal paese in cerca di migliori opportunità lavorative e sociali. Circostanza che è generata e a sua volta continua a generare (in un circolo virtuoso che è diventato un modello) dei ritorni permanenti e delle “restanze”, legati a nuove forme di economia e relazione (che rendono “visibile il potenziale trasformativo della cultura quando è vissuta come bene comune”): quelli di chi al festival ci lavora per tutto l’anno, tra cui chi lo ha ideato e fondato, come Alessio Bressi e Antonella Stranges, che spiegano proprio come FeC nasca da un’esigenza concreta, e cioè “creare possibilità reali nei luoghi da cui molti se ne vanno, a partire da ciò che già c’è e che li rende unici”.

Un concetto su cui insiste anche Giuseppe Gallo, presidente dell’associazione, che sottolinea quanto il festival sia “diventato un punto di riferimento per chi lavora sulla valorizzazione dei saperi popolari, per chi crede che i piccoli borghi dell’entroterra possano tornare a essere spazi vitali”.

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La rifondazione dei paesi in cui si “resta”: l’analisi di Vito Teti

Se n’è parlato nell’incontro “Monitorare il cambiamento. Paesi oggi. Geografie del possibile tra spopolamento, rigenerazione e nuove frontiere”, in cui a dialogare con Ferlaino (e con la giovane antropologa Ludovica Franzè) c’era uno dei loro “maestri” fondamentali, Vito Teti, che ha dedicato tanto delle sue ricerche al pensiero sulle aree interne calabresi (e che, proprio per questa sua riflessione sull’errare e il restare in epoca di globalizzazione, ha appena ottenuto il riconoscimento speciale alla Carriera della XIV edizione del Premio Letterario Caccuri). Secondo il professore queste “non sono spazi di nostalgia o luoghi sospesi nell’attesa di essere abbandonati” (e del cui spopolamento - che riguarda, specifica, 306 comuni della Calabria su 404, tra cui paesi che nel 1951 avevano 5000 abitanti e che ora ne hanno al massimo 1000 - sono in gran parte responsabili le politiche degli anni ’70), “da accompagnare alla morte”, ma invece possono, grazie al lavoro delle associazioni di giovani che, da dentro, fanno arte e cultura e ne valorizzano le risorse (e non di chi realizza grandi eventi costosi e per nulla o fintamente rispettosi delle tradizioni del posto, che vengono uccise dalla massificazione operata piuttosto che rivitalizzate), essere “rifondati” e “rigenerati” e diventare, appunto, “territori in cui il ritorno e la permanenza generano nuove forme di abitare, mantenendo vivo il legame tra memoria e innovazione sociale” e garantendo un futuro da “costruire tutti assieme”.

Non in una modalità esclusivamente conservativa (“Non si tratta di salvare le tradizioni, ma di farle camminare con noi” affermano i promotori): non sarebbe eticamente corretto - a meno di non voler incorrere in campanilismi passibili di sfociamenti in attitudini tutt’altro che inclusive - ma nemmeno possibile, visto che la stessa tradizione (che nella sua radice ha “trad-” , la stessa di “tradimento”) non è qualcosa di immobile ma subisce continue trasformazioni da parte di chi ne viene a contatto.

Il programma: un “felice” confronto fra culture

E allora la felicità che questo festival emana è data anche dal confronto con le culture altre (soprattutto musicali ma non solo), volute e accolte in seno a un programma ricco di concerti di formazioni di diversa provenienza, a partire da quelle più prossime al paese ospitante, come i suonatori di San Mango D’Aquino (che durante la prima serata hanno fatto ballare tutti quelli che occupavano piazza Chianettu, nonostante la sua conformazione a gradoni sembrasse rendere difficile lasciarsi andare alle danze), a quelli della parte opposta della regione, ed esattamente di Cardeto (RC), storico avanposto della “sonata a ballu” della valle del Sant’Agata (con in testa il “veterano” Diego Pizzimenti, che, dopo averci incantato col suo tamburello e la sua voce, ha suscitato ammirazione per l’energia da ragazzino che ha messo in un ballo tanto composto quanto potente), protagonisti della seconda serata, svoltasi nella piazzetta di Sant’Andrea (tornata a essere animata grazie al festival dopo che, dagli anni ’70, smise di ospitare la partenza della processione, oltre che il palo della cuccagna come altri giochi popolari, legati ai festeggiamenti in onore del santo omonimo, ex patrono di Conflenti).

Ma non sono mancati gli artisti provenienti da altre regioni, come i campani (per l’esattezza cilentaniKiepò e i laziali (ciociariTrillanti, che nella quarta serata hanno condiviso lo stesso palco (è doveroso precisare che nelle ultime due serate questa disposizione dei musicisti si è aggiunta a quella delle feste non strutturate, in cui questi hanno suonato allo stesso livello del pubblico), quello di piazza Visora, susseguendosi e cedendo infine il posto ai “padroni di casa”, il gruppo dei suonatori di “Felici e Conflenti”. Tutti e tre, come immaginabile, ricevendo grande soddisfazione dalla risposta “ballereccia” di chi assisteva ai loro concerti.

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Metamorfosi e improvvisazione “anomale” e “selvatiche”

Cilentani anche Gianluca Zammarelli e Catello Gargiulo che con il loro concerto/spettacolo “Anomali selvatici” (ripetuto, anche se con qualche variazione, nel terzo e nell’ultimo pomeriggio, in orario aperitivo) hanno inaugurato una delle due novità di quest’anno, e cioè il coinvolgimento dei bar del paese (nella parte all’aperto) - nel loro caso quello che prende il nome dalla piazza di cui sopra - come nuova location degli eventi.

Il progetto - ha raccontato Gianluca  -  fa incontrare gli strumenti tradizionali della loro zona (zampogna, ciaramella, fisarmonica, chitarra battente) con canzoni popolari (dai ritmi di tarantella, di valzer o di mazurka, sui quali chi non era seduto ai tavolini ha anche ballato) che, a partire dall’800, raccontano di lavoro, di guerra, di emigrazione, ma sopra a ogni cosa della difficoltà dell’incontro con l’altro/a, di amori affrontati con spirito incontaminato (selvatico) e in modo anti-convenzionale (anomalo), in cui spesso è necessario ricorrere alla metamorfosi (il riferimento è a Ovidio e ai suoi miti di trasformazione dallo stato umano a quello di flora e fauna) per arrivare a raggiungere il destinatario del proprio sentimento. Ma selvatica e anomala è anche la modalità improvvisativa  con cui i due artisti si sono rapportati al pubblico, soprattutto nei numerosi raccordi parlati, pieni di un’ironia che a volte è sfociata nel meta-discorso (come quello sulle due ciaramelle unite in una coppia suonata dalla stessa bocca, simbolo di una possibile unione tra due esseri che “fa la forza”, a esempio quando usata per la disinfestazione di surici, blatte e altri esseri considerati indesiderati - attuabile solo se, viene naturale pensare, non ci chiediamo se possano essere uomini che quella metamorfosi l’hanno subita loro malgrado, come nel noto omonimo racconto di Kafka).

I bambini diventati… mucche

Si sono trasformati in animali, e precisamente in mucche, anche i molti bambini che hanno aderito all’altra nuova proposta di questa edizione, e cioè le attività dedicate a loro: lo spettacolo di narrazione e bolle di sapone “Il sogno dell’astronauta” - di e con Debora Lorenzotti - e i due laboratori condotti, sul sagrato della Basilica della Madonna di Visora, da Jessica Vituliano. Quest’ultima, in linea con il riferimento del festival alla società dei pastori e dei contadini, li ha appunto fatti giocare con il concetto di transumanza (suscitando la riflessione sulla necessità delle migrazioni e sulla bellezza e la ricchezza dell’incontro con il “diverso” da noi) attraverso l’uso dei colori in una pittura libera e astratta, guidata dal movimento spontaneo del corpo (in un pomeriggio dal titolo “Intrecci in movimento”), oltreché con la gestione del ciclo del grano, dal raccolto alla semina (nell’altro appuntamento, “Il circo… lo dei semi”).

La dignità ridata ai “Birbanti”, tra musica e teatro

E ancora di uomini e animali, attraverso i linguaggi del teatro e della musica, con accompagnamenti e  canzoni eseguite dai sette strumenti tradizionali (piva, organetto, ghironda, chitarra battente, fisarmonica, cimbali e tamburi) suonati dalla bravissima Marta Mazzocchi, ci ha parlato lo spettacolo allestito nell’area di un altro bar, quello Centrale, dal titolo “Birbanti”, di e con Matteo Vignati (altrettanto bravo, nei tre ruoli di drammaturgo, regista e attore, nel suo uso sapiente del corpo e di una lingua fatta di dialetto ligure-emiliano e forestierismi di diversa provenienza europea, che diventa spesso una ballata in rima, alla maniera dei cantastorie), e in particolare di quella schiera di artisti di strada girovaghi e mendicanti che, tra i loro “numeri” più redditizzi, annoveravano le esibizioni con le bestie da loro addomesticate, da cui, a seconda di quali fossero, prendevano il nome che caratterizzava la propria specializzazione: scimmiante, cammellante, orsante. Ed è uno di loro stessi che, ventenne, il giorno del ritorno a casa (nel disperato tentativo di dare un ultimo saluto alla madre), dopo 13 anni dalla sua forzata partenza, racconta la propria storia, svoltasi nei primi decenni del ‘900, che si incrocia con quella di altri “poveri christi” (che è anche il nome della trilogia di cui questo spettacolo rappresenta il secondo capitolo), spesso venduti per un misero guadagno, ancora bambini, da una famiglia troppo numerosa a questi circhi ante-litteram. Personaggi considerati strani, ma a cui ridare la meritata dignità in quanto rappresentativi di miti e tradizioni del nord Italia (in particolare della Val di Taro, nell’Appennino parmense) dato l’importante ruolo sociale che alla fine si trovavano ad avere, nel popolare fiere e città durante le feste comandate, all’interno delle comunità con cui entravano in contatto.

Il vecchio mulino e la polifonia al femminile delle Damaramà

Un’operazione di recupero delle tradizioni, nelle diverse lingue che le hanno incarnate, in canti di molte zone d’Italia (dal Nord al Sud) e non solo, è il “movente” da cui sono partite Daniela, Manuela, Raffaella e Maddalena nel mettere su il progetto delle Damaramàgruppo polifonico (ma in cui non si disdegna l’accompagnamento degli strumenti popolari, suonati da loro stesse) che - oltre ad aver guidato il laboratorio di canto il giorno prima - nel primo pomeriggio della terza giornata ha chiuso, con un concerto acustico in mezzo alla natura, le “Confluenze sonore” iniziate nella mattinata con la passeggiata (a cura di Conflenti trekking) che ci ha portato a un suggestivo vecchio mulino, anch’esso riscoperto e recuperato, grazie alla signora Annarita (nordica ma “naturalizzata” conflentana), che l’ha acquistato e fatto restaurare e ci ha guidato a esplorarlo e a comprenderne l’antico funzionamento.

Alla visita, preceduta da due ore di cammino - di cui la relativa facilità ha permesso di usare il fiato anche per continuare a cantare e suonare (pure la zampogna, strumento a fiato multiplo, come di cui sopra…) fino all’arrivo e anche oltre -, è seguita una sosta rinfrescante (che per alcuni si è trasformata in un bagno sotto la cascatella) all’ormai scarno fiume Salso (in passato ferente energia idrica al mulino) e, subito dopo, un pranzo “arricreante” con pic-nic sull’erba, sul finire del quale hanno iniziato a levarsi le voci del trio femminile (al quartetto mancava Daniela). Regalandoci un excursus di canzoni di svariata provenienza, intesa sia come contesto lavorativo (di chi coltiva la terra come di chi va per mare) che geografico/culturale (ma che raccontavano quasi tutte, in particolare, storie con protagoniste le donne e la loro energia): greche (da Tracia e Rodi) come ebreo-sefardite (un repertorio coltivato proprio dalle donne, in cui si intrecciano testi di cultura giudaica, lingua ladina spagnola e melodie arabeggianti), occitane e francoprovenzali (da regioni di frontiera quali Piemonte e Val D’Aosta) come romagnole (“ripescate” da periodi antecedenti al dominio “asfaltante” del “liscio”), ma anche del nostro meridione, dalla Campania (con un omaggio al maestro Roberto De Simone, venuto a mancare ad aprile di quest’anno) alla stessa Calabria (messe poi a confronto, insieme a Marche e Romagna - dalle quali le Damaramà provengono - nel “medley” dei canti di questua benaugurali per l’inizio del nuovo anno: rispettivamente novene, strine e pasquelle).

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Il Salento infiamma Conflenti

Al centro dell’evento clou della serata conclusiva di F&C è stata invece la Puglia, con il concerto della storica band salentina Officina Zoè, i cui 32 anni di attività professionale non hanno fatto minimamente affievolire - è stata questa l’impressione generale - il loro piacere di regalare alla folla accorsa a sentirli un’esecuzione quasi perfetta ma tutt’altro che meccanica di brani ormai cult come “Philia” e “Don Pizzica” (su cui l’intera piazza Pontano non ha potuto che lasciarsi coinvolgere/travolgere in danze che in alcuni casi, pur se fatti in coppia, facevano pensare più alla pizzica tarantata ballata dalle donne “morse dal ragno” e studiata da Ernesto De Martino, che alla più tranquilla pizzica-pizzica eseguita nelle aie delle case contadine), o come la tradizionale “Kalinikta”, ninna nanna in “grico” (il dialetto parlato nella parte greca della regione, la “Grecìa” salentina) che non smette di avere il suo fascino incantatorio. Ma che non ha avuto l’effetto di mandare a nanna una folla infervorata da una presenza scenica tanto sobria - al limite dell’immobilità fisica per quanto riguarda le due cantanti - quanto potente. Cosa sicuramente già prevista dai componenti del gruppo, che hanno infatti continuato a suonare per un’altra ora piena, proponendo anche pezzi meno noti del loro repertorio (in cui da sempre a canti e pizziche tradizionali si alternano elaborazioni originali), arrivati come una riconferma della mistura di rappresentatività degli stilemi tipici della musica popolare della loro zona da una parte e di raffinatezza compositiva dall’altra, che da sempre contraddistingue la loro musica.

I Balli del Ciuccio e dei Giganti

Ed è stato un finale “col botto” in senso anche letterale, visto che al concerto e alla successiva festa coi suonatori tradizionali (che ha ripreso il discorso della prossimità di livello tra chi suona e chi ascolta e balla) è seguita l’immancabile chiusura di tutte le feste calabresi “di paese” che si rispettino: il rito apotropaico (dal greco apotrópaios, che allontana la sventura) del Ballo del Ciuccio, che correndo a suoni e passi di tarantella da una parte all’altra della piazza antistante la Basilica della Madonna di Visora, ha “esploso” (e scrivendo questa parola mi approprio dell’uso transitivo, tipico del calabrese, di verbi che nella lingua italiana non lo prevedono) i fuochi d’artificio che hanno poi finito per bruciare lo stesso fantoccio dalla sagoma d’asino sotto cui si trovava il danzatore.

Rispettato anche un altro appuntamento ricorrente in questo tipo di feste, quello con i Giganti (in questo caso realizzati da Felice Napoleone da Porto Salvo), che alle 18 spaccate hanno iniziato il loro ballo di corteggiamento a piazza Visora per poi proseguire il percorso (e itinerante era stata anche la Fanfarra che aveva portato in giro i propri suoni il giorno prima), accompagnato dai tamburi che, col loro ritmo inequivocabile, in ogni tappa lungo le strade di Conflenti annunciavano l’arrivo della principessa bianca e del saraceno che ha dismesso le armi per amor suo (diventando entrambi, come vuole la leggenda dalla paternità contesa tra molti paesi e città dello stretto di Messina, i protettori del posto).

Artigianalità e condivisione nelle attività di comunità

Ma è stato l’intero ultimo giorno di questo festival così partecipato a essere pieno di attività che hanno messo in evidenza la sua natura di comunità che, pur allargandosi, non perde mai la felicità della condivisione, della riscoperta della tradizione e dell’apprendimento artigianale. Tra le più significative quelle che si sono susseguite nella località Ardano dove (a parte il primo giorno nella villetta comunale) si è sempre svolto il pranzo (momento davvero vissuto ogni volta come “sociale”), che questa volta ha fatto da spartiacque tra due di quelle, che apparivano anche come momenti simbolici.

A chiudere la mattinata è stato il laboratorio di cucina tipica, in cui due generose signore ci hanno insegnato il procedimento per fare i “bocconotti” conflentesi (sottolineando di stare attente/i a controllare l’apporto dell’aria - schiacciandoli bene una volta riempiti per evitare di creare bolle tra l’impasto e il ripieno -, e il mio pensiero è corso al richiamo a quell’elemento così importante da dosare, nella preparazione dolciaria come nell’emissione di molti dei suoni tradizionali), serviti poi a conclusione del pasto (e già un laboratorio simile, quello di panificazione “Dalla Spiga al Pane”, a cura di Angelo Meringolo, si era svolto durante il secondo giorno, fornendo gioia ai partecipanti e a chi poi ha gustato il prodotto che ne è uscito. Mentre, sempre nell’ultima giornata, c’è stato un altro momento dedicato al cibo della tradizione locale, la Festa d’a Grispeddra Cujjintara, curata da Nicola Butera, che, con un banchetto posto vicino al palco prima, durante e dopo il concerto finale, come ogni anno ha deliziato i palati degli amanti di queste ciambelle fritte salate preparate con l’impasto di patate).

Il primo pomeriggio è stato invece dedicato alla “restituzione” dei diversi laboratori, unificati in un grande “laboratorio collettivo”, in cui ogni sapere appreso era insieme autonomo e di appoggio ad altri. E così gli organetti e le zampogne hanno accompagnato la danza e il canto, ma c’è stato anche il momento dei singoli strumenti, come delle voci sole, che si sono cimentate, oltre che tutte insieme, anche in gruppetti composti da tre persone (una per ognuna delle altrettante parti del canto).

Angelica e la sua “Isola felice”

Tra tutte è stato impossibile non notare il meraviglioso timbro, la pulizia degli acuti e in generale un’impostazione data da un evidente studio tecnico di una giovane ragazza dalla chioma rossa, la cui emissione canora potremmo definire col suo stesso nome proprio: Angelica. Una ragazza - che di cognome fa Perri e viene da Rogliano - per cui l’esperienza di “Felici e Conflenti”, vissuta per la prima volta due anni fa, è stata così importante (rivelatrice e curativa, come ha raccontato lei stessa, tanto da darle, in un momento di crisi della sua vita, la spinta per una svolta decisiva) da dedicare al festival una canzone - presentata durante un suo breve ma prezioso concerto in apertura della prima serata - in cui il suo cammino cantautorale si è intrecciato con i suoni, gli strumenti e le atmosfere del Reventino, avvalendosi anche della collaborazione dei musicisti di FeC, nonché della partecipazione, per la realizzazione del relativo videoclip, dell’intero staff dell’evento.

Un evento che, anche quest’anno, si è confermato essere un processo culturale e sociale che ridefinisce il rapporto tra tradizione e contemporaneità, mettendo al centro i territori e le persone. E andando così a costituire un esempio concreto e purtroppo ancora raro di buone pratiche da opporre a un mondo globalizzato e disumano. Perlappunto, come recita il titolo della canzone di Angelica, un’isola felice. Pardon, “L’isola felice”.