Carne, verità scomode e domande inevase. Quello che sappiamo, quello che temiamo, quello che scegliamo di non vedere
Dalle inchieste nazionali ai consumi locali. Senza accuse, ma con interrogativi che riguardano anche la Calabria
Nel giornalismo d’inchiesta ci sono parole che si usano con cautela. Scioccante è una di queste. Perché rischia di diventare inflazionata, svuotata, buona per attirare attenzione ma non per spiegare. Eppure, davanti a ciò che sta emergendo da alcune indagini sul mondo della carne, il problema non è trovare un aggettivo forte. Il problema è capire se ne stiamo usando uno troppo debole.
Negli ultimi mesi la collega Giulia Innocenzi ha portato avanti una serie di inchieste che toccano nervi scoperti del sistema alimentare contemporaneo. Carne, pollo, allevamenti intensivi, filiere opache. Lavori documentati, basati su testimonianze dirette, immagini, voci interne a un sistema che raramente parla. Ed è proprio quando parla che il racconto diventa difficile da metabolizzare.
Le testimonianze che fanno rumore
Macellai, addetti ai lavori, uomini che per anni hanno fatto parte di quel meccanismo e che oggi, per scelta o per rottura, decidono di raccontare. Non opinionisti, non attivisti, ma persone che descrivono pratiche. Pratiche che, se confermate nella loro interezza, non riguardano la semplice irregolarità, ma un modo distorto di intendere il cibo. Carne scaduta da anni, proveniente da diverse parti del mondo, con date che si fermano al 2023 e anche prima. Carne che viene aperta, lavorata, ripulita.
Nel gergo di chi ha parlato, “ripulire” significa togliere lo strato superficiale ormai alterato, diventato scuro, marrone, irriconoscibile. Significa cercare di riportare il prodotto a un colore accettabile. Significa intervenire sul sapore, con correttori, additivi, tecniche che non servono a migliorare la qualità ma a mascherare il difetto. Questo dicono le testimonianze. Questo mostrano alcune immagini. Ed è qui che il linguaggio si ferma un attimo, perché raccontare non significa condannare senza processo, ma nemmeno voltarsi dall’altra parte.
Il punto centrale non è l’accusa
È fondamentale chiarirlo. Un articolo come questo non afferma che tutta la carne in commercio sia alterata. Non afferma che ogni allevamento intensivo operi fuori dalle regole. Non afferma che ciò che emerge da un’inchiesta nazionale sia automaticamente replicato ovunque. Il punto centrale è un altro. È la fragilità di un sistema basato su quantità enormi, su filiere lunghissime, su una distanza crescente tra chi produce e chi consuma.
Quando il volume diventa il primo obiettivo, il rischio non è solo ambientale o etico. Diventa sanitario, culturale, sociale.
Il legame con la Calabria
A questo punto la domanda si sposta. Non resta confinata nei confini delle inchieste nazionali. Arriva fino a noi. Arriva in Calabria. E qui le parole vanno pesate ancora di più. Non abbiamo certezze, non abbiamo prove, non abbiamo riscontri diretti che dicano che carne ripulita e rietichettata arrivi sistematicamente sulle tavole calabresi. Ma abbiamo interrogativi legittimi. E nel giornalismo serio, gli interrogativi sono il cuore del lavoro.
La Calabria è una regione che importa molta carne. Lo sappiamo. Importa agnelli, vitelli, carni bovine, suine. Importa soprattutto nei periodi di picco dei consumi, come Natale e Pasqua. L’agnello è un esempio emblematico. È simbolo di festa, di tradizione. Ma facendo due conti elementari, viene spontaneo chiedersi se il numero di allevatori locali sia davvero sufficiente a coprire il fabbisogno reale.
Non è un’accusa, è aritmetica. Migliaia e migliaia di agnelli consumati in pochi giorni. Allevamenti calabresi che esistono, resistono, ma che non sono allevamenti industriali da decine di migliaia di capi. Da dove arriva il resto. In gran parte dall’estero. Anche dalla Nuova Zelanda. Un Paese lontanissimo, con filiere lunghissime, tempi di trasporto inevitabilmente estesi.
Il tema non è la Nuova Zelanda in sé. È il modello. È la distanza. È il tempo. È il numero di passaggi intermedi. Ogni passaggio è un punto cieco potenziale.
Le inchieste citate si concentrano su tagli specifici di vitello. Tagli pregiati, apparentemente perfetti, destinati a ristorazione e grande distribuzione. Ma il ragionamento non può fermarsi lì. Se un sistema consente pratiche scorrette su un prodotto, la domanda è se quello stesso sistema sia impermeabile quando si parla di maiale, di bovino adulto, di altre carni. Non stiamo dicendo che accade. Stiamo chiedendo se potrebbe accadere.
E chiederselo non è terrorismo alimentare. È prevenzione culturale.
La grande distribuzione organizzata è un attore centrale. Non perché sia per definizione colpevole, ma perché è il terminale di filiere complesse. Lavora su margini ridotti, su volumi enormi, su prezzi che il consumatore vuole sempre più bassi. E quando il prezzo diventa l’unico criterio di scelta, qualcuno, da qualche parte, paga il conto. Spesso non lo vediamo. È nascosto dietro un’etichetta rassicurante.
Il consumatore medio si fida. Deve farlo. Non può indagare su ogni bistecca. Ma la fiducia non è cieca. È un patto. E quel patto si regge sulla trasparenza. Quando emergono inchieste che mostrano zone d’ombra, il patto va rafforzato, non negato.
Il rischio più grande è l’assuefazione
C’è un rischio sottile, più pericoloso di qualsiasi scandalo. L’assuefazione. Sentire, vedere, leggere e poi archiviare tutto come l’ennesima storia sporca. Continuare come prima. È qui che il giornalismo deve insistere. Non per spaventare, ma per svegliare.
Da questo punto di vista, il ragionamento torna alle origini. Forse la domanda giusta non è se in Calabria arrivi anche carne ripulita e rietichettata. La domanda è perché dovremmo correre questo rischio quando esiste un’alternativa. Allevamenti calabresi, non intensivi, spesso a conduzione familiare, con numeri ridotti, con animali tracciabili, con volti e nomi dietro il prodotto.
Non sono perfetti. Nessun sistema lo è. Ma sono più vicini. E la vicinanza è un valore.
Allevamenti non intensivi significano spesso maggiore attenzione al benessere animale. Spazi più ampi, ritmi meno forzati, alimentazione più naturale. Non è ideologia, è relazione diretta tra metodo e qualità. Una carne che cresce lentamente è diversa. Non solo nel sapore, ma nella storia che porta con sé.
Il cittadino al centro
Alla fine, come sempre, il cerchio si chiude sul cittadino. Non come colpevole, ma come protagonista. Ogni acquisto è una scelta. Ogni scelta è un segnale. Sostenere la carne calabrese significa sostenere un’economia locale, ridurre le filiere, abbassare i rischi, difendere un territorio che troppo spesso viene sacrificato sull’altare del prezzo più basso.
Le inchieste di Giulia Innocenzi non vanno lette con paura, ma con maturità. Non sono sentenze, sono campanelli d’allarme. Ignorarli sarebbe comodo, ma miope. La Calabria non è un’isola felice isolata dal mondo. È parte di un mercato globale. Proprio per questo ha il diritto, e forse il dovere, di interrogarsi, di scegliere, di difendere ciò che è vicino e riconoscibile.
Non per chiudersi. Ma per mangiare con maggiore consapevolezza. E in un tempo in cui il cibo è sempre più industria, questa, forse, è la forma più concreta di libertà.