Nicola Calipari
Nicola Calipari

Sono passati più di vent’anni da quel 4 marzo 2005, quando Nicola Calipari, poliziotto, militare e agente segreto nato a Reggio Calabria, fu ucciso da soldati statunitensi nei pressi dell’aeroporto di Baghdad, subito dopo aver liberato la giornalista Giuliana Sgrena. In un’intervista al Corriere della Sera, la figlia Silvia ne ha tracciato un ritratto intimo: «Era un uomo perbene, con grandi valori, un forte senso dello Stato e un immenso rispetto per la vita». Per lei, non un eroe da copertina, ma un padre sempre presente, anche quando il lavoro lo portava lontano.

Il peso del silenzio e l’ultima missione

Silvia ricorda la riservatezza assoluta del padre sul suo lavoro: mai una parola, nemmeno nei momenti più delicati, come la liberazione di ostaggi in precedenti operazioni. La chiamata per l’Iraq arrivò mentre la famiglia era pronta a partire per la settimana bianca. «Non sapevo fosse operativo – racconta – ma ho capito subito dove stava andando». La giovane non aveva paura, certa che stesse facendo qualcosa di importante. Il 4 marzo 2005, la liberazione di Sgrena fu inizialmente accolta con gioia, ma presto la notizia della sua morte sconvolse la famiglia.

L’impatto della tragedia e la rabbia per la mancanza di giustizia

Dopo lo shock arrivarono i giorni del caos mediatico, con giornalisti sotto casa e riflettori puntati: una condizione che Silvia avrebbe voluto evitare. La vicinanza della comunità e delle istituzioni locali fu preziosa, ma non cancellò la rabbia per la gestione della vicenda. L’uccisione di Calipari da parte del soldato americano Mario Lozano fu definita “tragica casualità”, ma la figlia non crede a questa versione. «Mio padre è stato lasciato solo – accusa –. Era troppo per bene per quell’ambiente, e l’Italia poteva fare di più per dargli giustizia». Gli Stati Uniti non concessero mai l’estradizione e il processo non si celebrò.