La Calabria è davvero una terra persa?
Gli intrecci tra politica e criminalità condizionano il territorio

È la domanda che si fanno in molti, anche tra gli stessi calabresi, ogni volta che la cronaca restituisce l’ennesimo intreccio tra politica corrotta, criminalità organizzata e silenzio istituzionale. Ma la risposta, se esiste, non può essere semplice né superficiale. Perché in Calabria il problema principale non è soltanto la 'ndrangheta, che pure esiste, opera e condiziona il territorio, ma una classe dirigente che da decenni ha fallito ogni occasione di riscatto. È la malapolitica, più ancora della criminalità, il vero sistema di potere che soffoca ogni tentativo di normalità.
La politica e il clientelismo
In questa regione, più che altrove, la politica si è trasformata in un mezzo per garantire privilegi personali, blindare consensi attraverso il clientelismo e gestire fondi pubblici con logiche opache. Non esiste un’idea di sviluppo coerente, né una visione di lungo periodo. Le risorse – europee e statali – vengono spesso disperse in interventi inutili o destinate secondo logiche di appartenenza e convenienza, piuttosto che di merito e utilità pubblica. Le conseguenze sono ovunque: sanità al collasso, infrastrutture carenti, trasporti inefficienti, servizi sociali minimi, scuole fatiscenti, amministrazioni locali frequentemente commissariate o travolte da inchieste.
Il "vuoto" di chi approfitta la 'ndrangheta
La 'ndrangheta approfitta di questo vuoto, ma non lo crea. Entra in scena quando la politica ha già smesso di funzionare. In molte zone, la vera anomalia non è la criminalità organizzata, ma l’assenza di uno Stato credibile, presente, operativo. Laddove le istituzioni si ritirano, il potere si redistribuisce tra clientele, gruppi di interesse e, naturalmente, criminalità. In Calabria, questo processo si è consolidato a tal punto che l’eccezione è diventata normalità.
La morsa paralizzante
Il cittadino si trova così stretto in una morsa paralizzante. Da un lato, non si fida dello Stato perché ne sperimenta quotidianamente l’inefficienza o la distanza. Dall’altro, non si fida della politica, che negli anni ha offerto solo versioni diverse della stessa logica: promettere, gestire, mantenere il controllo. Non sorprende, quindi, che spesso si rinunci anche alla denuncia della criminalità, non tanto per paura quanto per la convinzione che non cambierà nulla. Quando tra gli ‘ndranghetisti e i palazzi istituzionali la distanza percepita è minima, la legalità diventa un concetto vago.
Chi critica viene emarginato
Tutto questo ha effetti reali, concreti, quotidiani. L’abitudine alla rassegnazione è diventata un tratto collettivo. L’emigrazione dei giovani una scelta obbligata più che un’opzione. Il dissenso, quando esiste, è spesso isolato, delegittimato o ignorato. Chi prova a sollevare critiche è accusato di disfattismo o di “attaccare la Calabria”, come se criticare chi governa fosse un’offesa alla dignità della regione e non, al contrario, un atto di responsabilità civile.
Calabria tradita ma non perdura
La verità è che la Calabria non è una terra perduta. È una terra tradita. Non dai suoi cittadini, che spesso resistono in silenzio, ma da chi avrebbe dovuto rappresentarli. Da chi ha ridotto le istituzioni a strumenti personali. Da chi ha scambiato il bisogno per consenso. Da chi ha costruito carriere sulle macerie di un territorio lasciato solo. Finché la politica non sarà in grado di ripensarsi radicalmente, rompendo con le logiche consociative, opache e colluse, qualsiasi lotta alla 'ndrangheta resterà incompiuta. Perché non esiste mafia forte senza politica debole. E in Calabria, da troppo tempo, la politica ha lasciato il campo libero.
Questo è il punto da cui partire, se davvero si vuole aprire una stagione di cambiamento. Non con la retorica, ma con responsabilità, visione e coraggio.