Il biologico vende. Anzi, rassicura. Ma per comprendere davvero cosa significhi "biologico", occorre andare oltre l'etichetta. Secondo il regolamento europeo (UE) 2018/848, l’agricoltura biologica è un sistema di gestione agricola e di produzione alimentare che combina le migliori pratiche ambientali, un elevato livello di biodiversità, la conservazione delle risorse naturali, l’applicazione di standard rigorosi sul benessere animale e un metodo di produzione che utilizza sostanze e processi naturali. In sostanza, significa coltivare e allevare senza pesticidi di sintesi, fertilizzanti chimici, antibiotici non strettamente necessari, OGM o additivi industriali superflui. Il biologico autentico promuove il ciclo chiuso delle sostanze, la rotazione colturale, la fertilità naturale del suolo e l’equilibrio tra uomo e ambiente. È una filosofia agricola prima ancora che una tecnica: implica un’idea precisa di limite, di rispetto, di coesistenza. Ma dietro l'apparente semplicità dell'etichetta bio si nasconde spesso una realtà più complessa, a tratti opaca, a volte perfino ingannevole.
Negli ultimi anni, il mercato del biologico ha registrato una crescita costante: secondo Nomisma, nel 2024 le vendite di prodotti bio in Italia hanno superato i 5,6 miliardi di euro. Un settore redditizio, e come tale appetibile anche per chi cerca di approfittarne. Le frodi nel biologico non sono un'eccezione: sono una distorsione sistemica.

Cos'è davvero il “bio”

Ciò che chiamiamo "bio" è spesso il risultato di filiere complesse e globalizzate, che nulla hanno a che vedere con l’idea originaria di prossimità e sostenibilità. Le materie prime vengono coltivate in paesi lontani, spesso in condizioni ambientali e sociali opache, per poi essere spedite in Europa, trasformate, confezionate e infine etichettate come 'biologiche'. Questa distanza fisica e culturale tra luogo di produzione e consumo rende il controllo più difficile, la tracciabilità più debole e la relazione con il territorio inesistente. Il viaggio di migliaia di chilometri non è solo logistico, ma anche simbolico: allontana il prodotto dalla sua autenticità, mentre lo avvicina ai meccanismi dell’agroindustria. E proprio in questo snodo si annida una delle principali zone d'ombra dell'industria biologica. È possibile che soia coltivata in Brasile, in piantagioni di migliaia di ettari, venga venduta come biologica in Europa perché certificata da enti privati che operano in quei territori con standard meno rigorosi e controlli sporadici. Questi enti, spesso in conflitto d’interessi, certificano la conformità bio sulla base di documentazione cartacea che può essere facilmente manipolata o non verificata sul campo. Lo stesso vale per il grano ucraino: nel 2023, in diversi porti italiani sono state sequestrate tonnellate di cereali certificati come bio, risultati poi contaminati da micotossine oltre i limiti consentiti. La merce era stata dichiarata conforme sulla base di certificati rilasciati da organismi accreditati fuori dall’UE, ma non sottoposti ad alcuna ispezione indipendente. La lunga distanza, i confini giurisdizionali, la debolezza dei controlli e l'eccessiva fiducia nella burocrazia delle certificazioni rendono possibile questa dinamica: l’etichetta bio diventa un lasciapassare, non una garanzia reale. Il problema non è solo geografico, ma sistemico: molte delle certificazioni vengono rilasciate da organismi di controllo privati operanti in paesi terzi, con standard variabili e verifiche deboli. In pratica, il consumatore europeo acquista prodotti con il logo verde dell'Unione, senza sapere che il controllo reale su quelle coltivazioni è spesso insufficiente o addirittura fittizio. Tutto questo è reso possibile da una normativa europea che, pur prevedendo regole dettagliate, lascia ampi margini di delega agli Stati membri e agli organismi certificatori accreditati. Il risultato? Una parte del mercato biologico è occupata da prodotti che, pur recando la certificazione, non garantiscono né sostenibilità reale, né trasparenza, né sicurezza alimentare. Tutto questo legittimato da un bollino. La questione non è solo normativa, è politica. Serve un cambiamento culturale che restituisca significato autentico alle parole. Un'agricoltura davvero biologica non può prescindere dal rispetto del territorio, dalla prossimità, dalla trasparenza delle pratiche. Ma finché bio sarà solo una certificazione da apporre sul confezione, e non un impegno reale lungo tutta la filiera, resteremo vittime di una narrazione edulcorata. Il bio ha senso solo se rompe con la logica dell'agroindustria globalizzata. Altrimenti non è un'alternativa: è solo un'altra etichetta sullo scaffale. Ma allora come può un consumatore distinguere un vero prodotto biologico da uno che ne ha solo l'apparenza? Innanzitutto, osservando l'origine della materia prima: la tracciabilità geografica è un primo indicatore di coerenza. Un prodotto bio italiano, con ingredienti coltivati in Italia, offre maggiori garanzie rispetto a uno proveniente da una filiera transcontinentale. In secondo luogo, è utile conoscere il nome dell'organismo di certificazione, sempre riportato in etichetta accanto al logo verde europeo: se si tratta di un ente noto e riconosciuto, è un buon segnale. Inoltre, i veri prodotti bio tendono ad avere una lista ingredienti corta e trasparente, priva di additivi o 'aromi naturali' non meglio specificati. Infine, è possibile verificare il codice operatore biologico sul sito ufficiale del Ministero dell'Agricoltura o degli enti accreditati: uno strumento concreto per smascherare operazioni di ambientalismo di facciata. Essere consumatori informati oggi significa anche sviluppare strumenti critici per riconoscere quando un'etichetta nasconde più di quanto riveli.