Gusto Ribelle: Il gusto globale: quando il cibo perde il passaporto
Nel nuovo scacchiere internazionale, il cibo ha smesso di essere solo una merce: è diventato uno strumento di pressione politica

Chi avrebbe mai pensato che il prezzo dell’avocado potesse diventare argomento da Consiglio di sicurezza? O che parlare di tendenze gastronomiche richiedesse quasi una laurea in geopolitica? Eppure, eccoci qui: nell’epoca della globalizzazione, dove il cibo non è più solo nutrimento, ma leva diplomatica, simbolo di identità e campo di battaglia economico.
La globalizzazione alimentare
La globalizzazione alimentare, quella che ci ha portato kebab nei bar di provincia e tiramisù nei centri commerciali asiatici, sta mutando forma. Non è finita: ha solo cambiato pelle. Si è trasformata in una rete instabile e frammentata, attraversata da crisi geopolitiche, dazi commerciali e cambiamenti climatici. Oggi il gusto globale è spesso un prodotto artificiale: un sapore neutro, pensato per piacere a tutti ma incapace di raccontare un’origine.
Nel nuovo scacchiere internazionale, il cibo ha smesso di essere solo una merce: è diventato uno strumento di pressione politica. I conflitti internazionali e le tensioni tra blocchi economici – Europa, Stati Uniti, Russia e Cina – hanno portato il tema alimentare dal banco del supermercato al tavolo delle trattative diplomatiche. Il ritorno dei dazi, come quelli imposti dagli Stati Uniti sui prodotti europei, ha colpito direttamente l’Italia, terzo esportatore agroalimentare verso quel mercato. Nel 2023 il valore dell’export italiano ha superato i 6,9 miliardi di euro. Le barriere doganali non rappresentano solo un ostacolo: possono diventare uno spartiacque tra un modello produttivo vulnerabile e uno più autonomo e sostenibile.
Le filiere regionali
In risposta, si rafforza un modello alimentare basato sulla regionalizzazione delle filiere. La logica della produzione locale, un tempo relegata a nicchie etiche, si impone come risposta concreta alla complessità logistica e al bisogno crescente di autenticità. I costi di trasporto, le interruzioni nelle forniture, la consapevolezza del consumatore stanno spingendo verso modelli a filiera corta.
Questa spinta al radicamento si riflette anche all’estero. La cucina italiana nel mondo rappresenta una risorsa strategica: in un contesto di barriere commerciali crescenti, può diventare uno strumento efficace di promozione e connessione internazionale. Tuttavia, molti dei ristoranti che si dichiarano italiani utilizzano surrogati economici dei nostri prodotti, contribuendo a una diffusione distorta e commerciale della nostra identità gastronomica. La gastronomia, oggi, è anche diplomazia.
La standardizzazione avanza
Ma mentre in Italia si moltiplicano le retoriche sul rilancio dell'identità agroalimentare, spesso disconnesse da politiche concrete, la standardizzazione avanza. I fast food – amatissimi da giovani e non solo – hanno sostituito in molte città l’osteria di quartiere, cancellando la memoria dei piatti tradizionali. Un panino confezionato uguale in tutto il mondo ha preso il posto della pasta fatta in casa o della zuppa stagionale, riducendo il pasto a un'esperienza senza contesto né radici. Dieci multinazionali controllano il grosso del mercato globale. Nestlé, Coca-Cola, PepsiCo, Unilever, Danone, Mars, Mondelez, Kellogg’s, General Mills e Associated British Foods dominano la scena. Possiedono migliaia di marchi, producono cibo per miliardi di persone, e tendono a uniformare gusti e formule per semplificare la distribuzione e massimizzare il profitto. Il risultato? Prodotti replicabili, facilmente esportabili, ma sempre più svuotati di autenticità.
La crisi climatica accelera e complica questo scenario. Secondo i dati più recenti, il 40% delle terre coltivate mondiali è a rischio desertificazione entro il 2050. In Italia, negli ultimi dieci anni, si sono persi 37.000 ettari coltivabili. Le stagioni cambiano, i calendari agricoli si spostano, e con essi le certezze di una filiera già sotto pressione. L’identità alimentare, fatta di territorio, varietà e memoria, vacilla.
Il gusto come memoria
Il gusto, in fondo, non è solo una questione sensoriale. È una forma di memoria. Di riconoscimento. Di appartenenza. Ogni sapore autentico racconta una storia: di mani che l'hanno preparato, di stagioni che l'hanno reso possibile, di territori che ne hanno modellato la forma. Il gusto è cultura sedimentata, è identità masticabile. Quando viene standardizzato, il cibo perde la voce. E chi lo mangia, lentamente, perde l’orecchio per riconoscere il vero dal finto.
Serve una risposta sistemica. Una rivoluzione gentile ma decisa, che parta dalla resilienza delle comunità agricole, dall’ingegno delle cucine locali, dalla forza della cultura gastronomica italiana. Non sarà una questione di dimensioni o capitali, ma di visione. Difendere il gusto vero o lasciarlo dissolversi in una salsa globale senza anima.
Il gusto globale è comodo, efficiente, redditizio. Ma può sopravvivere senza radici? Il palato, come la memoria, ha bisogno di autenticità. Ed è tempo di tornare a sentirla.