Gusto ribelle: La qualità è un diritto, non un lusso
L'accesso a un cibo buono, sano e giusto non dovrebbe essere il privilegio di chi può permetterselo, ma un diritto garantito a ogni cittadino

Esistono consumatori del genuino ed esistono consumatori dei surrogati. Non per scelta, ma per collocazione sociale. È una divisione che non riguarda solo il palato, ma la struttura profonda della nostra società: una frattura simbolica che separa chi ha accesso alla memoria del gusto da chi viene educato al surrogato fin dalla nascita. Il popolo del genuino si nutre di storie, saperi e filiere trasparenti; il popolo del surrogato consuma ciò che resta, spesso confezionato per imitare, raramente per nutrire. Una frattura politica, perché là dove manca la qualità, si spezza anche la dignità. In un sistema che trasforma tutto in merce, anche la qualità diventa un bene a pagamento. Chi può, acquista pane di grani antichi, formaggi a latte crudo, ortaggi freschi a chilometro "vero". Chi non può, si ritrova con piatti pronti riscaldati al microonde, salumi a base di carne ricostituita e verdure insapori coltivate fuori stagione, senza alcun legame con il territorio o la stagionalità. In apparenza mangiamo tutti. In realtà, mangiamo cose molto diverse. E quelle differenze si vedono nella salute, nei gusti, nella cultura alimentare. Là dove i redditi non superano i mille euro al mese, si moltiplicano i discount e i fast food: non per comodità, ma per necessità. Sono spesso l’unica risposta economicamente accessibile alla fame quotidiana. Le alternative più sane, spesso, sono fuori portata: distanti non solo nello spazio, ma anche nei codici, nei linguaggi, nei prezzi. Così, mentre una parte della popolazione discute di tracciabilità e filiere trasparenti, un’altra si orienta tra scaffali pieni di prodotti iper-lavorati con etichette illeggibili e promesse di qualità stampate in grassetto ma prive di sostanza.
Un diritto ad ogni cittadino
L'accesso a un cibo buono, sano e giusto non dovrebbe essere il privilegio di chi può permetterselo, ma un diritto garantito a ogni cittadino. Eppure, nel sistema alimentare attuale, la qualità si misura spesso con la disponibilità economica. Chi ha meno, mangia peggio. Non per scelta, ma per condizione.
Supermercati a basso costo, mense scolastiche sottofinanziate, quartieri periferici privi di mercati rionali: l'inequazione alimentare si insinua nella quotidianità con la stessa forza invisibile della fame. Si parla di food desert, ma anche di food apartheid. Il risultato è un doppio danno: sanitario e culturale.
Il cibo scadente, ultra-processato, eccessivamente zuccherato o salato, è spesso l'unico disponibile per chi ha un reddito basso. Lo testimoniano gli indicatori di salute pubblica: le malattie legate all'alimentazione colpiscono più duramente le fasce più povere. E intanto, le narrazioni del cibo buono si rivolgono a chi può permettersi biologico, artigianale, locale, gourmet. Il paradosso è evidente: i contadini che coltivano il cibo spesso non possono permetterselo; le famiglie che vivono nelle zone agricole finiscono col nutrirsi di merendine e pane industriale. La catena del valore si è spezzata: a chi produce rimane pochissimo, a chi consuma arriva un surrogato. Garantire l'equità alimentare significa ridisegnare l'intero sistema. Serve una politica pubblica che metta il cibo al centro: dalla scuola all'urbanistica, dalla sanità al welfare. Servono mense pubbliche di qualità, agricoltura di prossimità sostenuta, sostegno al consumo consapevole anche nei quartieri più difficili. Servono diritti e non concessioni, strumenti strutturali e non solo bonus a tempo. Perché il cibo non è solo nutrimento: è educazione, salute, cultura, giustizia. Chiunque si sieda a tavola ha diritto a sapere cosa mangia e a potersi fidare. Ogni bambino ha diritto a una mensa che non sia un compromesso al ribasso. Ogni lavoratore ha diritto a una pausa pranzo che non sia un rischio per la salute. La qualità non deve essere una medaglia da esibire, ma una condizione di partenza. Non un premio, ma un presupposto. Un Paese che tollera un sistema alimentare diseguale non può dirsi civile: può dirsi efficiente, competitivo, produttivo, ma non giusto. E senza giustizia alimentare, nessuna altra forma di giustizia può dirsi completa.