Omicidio Gioffrè, condannata a 17 anni Tiziana Mirabelli: esclusa la rapina come movente
La Corte d’Assise di Cosenza ha riconosciuto l’imputata colpevole per un delitto a sfondo passionale

La Corte d’Assise di Cosenza ha emesso una condanna a 17 anni di reclusione per Tiziana Mirabelli, unica imputata nel processo per l’omicidio di Rocco Gioffrè, ucciso con 41 coltellate il 14 febbraio 2023 in un alloggio popolare di via Monte Grappa. Il verdetto, pronunciato nel pomeriggio dopo tre ore di camera di consiglio dalla presidente Paola Lucente (giudice a latere De Vuono), ha escluso alcune aggravanti e ha riqualificato i reati accessori relativi all’occultamento di cadavere e alla rapina, riconoscendo la continuazione tra i reati contestati e applicando la riduzione di pena prevista per il rito abbreviato. Mirabelli è stata inoltre condannata a un anno di reclusione per un reato minore, in forma riqualificata.
Le sanzioni accessorie e le disposizioni patrimoniali
Oltre alla pena detentiva, il dispositivo della Corte prevede l’interdizione dai pubblici uffici e l’applicazione della libertà vigilata per tre anni una volta espiata la pena. La donna dovrà anche versare un risarcimento alle parti civili, con una provvisionale fissata a 60mila euro. Sul piano patrimoniale, è stato confermato il sequestro dell’abitazione dell’imputata per ragioni probatorie. La Corte ha inoltre disposto la confisca e la distruzione dei coltelli e dei materiali sequestrati, eccetto dispositivi elettronici (smartphone, tablet, PC) eventualmente appartenenti alle persone offese, che dovranno essere restituiti ai legittimi proprietari.
Due verità contrapposte nel processo
Il processo si è articolato attorno a due ricostruzioni radicalmente diverse. Secondo l’accusa, rappresentata dalla PM Marialuigia D’Andrea, l’omicidio sarebbe stato premeditato e finalizzato a una rapina, motivata da un presunto debito e dalla convinzione che Gioffrè custodisse somme di denaro in casa per curare il figlio. Una ricostruzione contestata con forza dalla difesa, rappresentata dall’avvocato Cristian Cristiano, che ha sostenuto che la sua assistita avrebbe agito per difendersi da un’aggressione sessuale. L’imputata, nelle sue dichiarazioni spontanee, ha raccontato di essere stata sorpresa alle spalle dalla vittima armata di coltello e di aver reagito per salvarsi. Alla fine, la Corte ha rigettato la tesi della legittima difesa, riconoscendo però un movente passionale, e non legato alla rapina, nella dinamica del delitto.