Massimo Vona, allevatore di 44 anni di Petilia Policastro, scomparve il 30 ottobre 2018. Secondo la ricostruzione degli inquirenti, fu attirato in una azienda agricola con l’inganno, al fine di chiarire le responsabilità di un incendio appiccato al suo capannone due anni prima. Qui, secondo le ricostruzioni, sarebbe stato ucciso a colpi d’arma da fuoco e il suo corpo fatto sparire, in uno scenario tipico della cosiddetta “lupara bianca”.

L’auto bruciata e il gelo dell’inchiesta

Otto giorni dopo la scomparsa, i carabinieri rinvennero la carcassa carbonizzata della sua auto. Nessuna traccia della vittima è emersa da allora, un dettaglio che ha fatto di questo caso un emblema di ingiustizia irrisolta. Le indagini, condotte dalla Direzione Distrettuale Antimafia di Catanzaro, hanno portato a 12 fermi per mafia, omicidio ed estorsione, ma non hanno restituito il corpo né risposte chiare sul movente profondo dell’agguato.

Il processo tra condanne e assoluzioni

Nel corso delle indagini e dei successivi gradi di giudizio, sono stati individuati un esecutore materiale e un possibile mandante. Tuttavia, il quadro giudiziario rimane controverso: diversi imputati sono stati condannati per reati connessi alla mafia, ma per l’omicidio di Vona le sentenze non hanno visto verdetti definitivi. In primo grado, l’uomo ritenuto responsabile materiale fu assolto dalla Corte d’Assise di Catanzaro, decisione ancora oggi oggetto di riflessione e dibattito locale e nazionale.

Una ferita ancora aperta

La vicenda di Massimo Vona è diventata simbolo della ferita della “ndrangheta” che uccide e si impone anche nel silenzio della morte che non lascia tracce. Ancora oggi la comunità attende verità, giustizia e una memoria condivisa per onorare una vita spezzata ingiustamente, nella speranza che la luce dell’intolleranza verso il reato mafioso possa prevalere sul buio dell’impunità.