Una sala per la lavorazione del pesce

Aprire il congelatore di un supermercato oggi è come sfogliare un atlante senza confini. Filetti, tranci, crostacei, molluschi. Provenienze che rimandano a oceani lontani, mari che molti non saprebbero nemmeno indicare su una cartina. Tutto perfettamente confezionato, ordinato, rassicurante. Eppure una domanda, semplice e scomoda, resta sospesa. In una terra circondata dal mare, perché mangiamo pesce che arriva dall’altra parte del mondo?

Il surgelato come normalità

Il pesce surgelato non è il male assoluto. È una tecnologia, una risposta a esigenze di conservazione, una soluzione pratica. Il problema nasce quando diventa la regola, non l’eccezione. Quando il surgelato anonimo sostituisce il pescato locale senza che nessuno se ne accorga davvero. Il consumatore medio prende una confezione, legge poco o nulla, si affida al prezzo e all’immagine. Il resto scompare.

Da dove arriva davvero

Molto del pesce che troviamo sugli scaffali proviene da luoghi indefiniti. Oceani, mari extraeuropei, allevamenti intensivi lontani migliaia di chilometri. Passaggi multipli, lavorazioni industriali, conservazioni prolungate. Tutto legale, tutto consentito. Ma ancora una volta il punto non è la legalità. È la consapevolezza.

Il caso del baccalà

Il baccalà è l’emblema perfetto di questa contraddizione. Prodotto storico, radicato nella tradizione italiana e calabrese, ma che di calabrese non ha nulla nella materia prima. Merluzzo che arriva dal Nord Europa o dall’Atlantico, salato, essiccato, trasportato, reidratato. Nessun inganno, nessuna truffa. Ma anche qui la domanda è inevitabile. Perché sulle nostre tavole il baccalà è spesso più presente del pesce fresco locale.

La risposta sta nell’abitudine

Le abitudini contano più di quanto immaginiamo. Ci abituiamo a ciò che è sempre disponibile, standardizzato, facile da cucinare. Ci abituiamo a sapori che non raccontano un luogo, ma un processo industriale. E lentamente perdiamo il legame con ciò che ci circonda.

Il paradosso calabrese

La Calabria ha due mari, Tirreno e Ionio. Ha coste ricchissime, fondali diversi, biodiversità straordinaria. Eppure spesso preferisce prodotti che non hanno visto queste acque nemmeno da lontano. È un paradosso che fa riflettere. Perché non parliamo di mancanza di risorse, ma di scelta culturale.

Le eccellenze dimenticate

Basterebbe guardare più vicino. Due gamberoni di Cetraro, pochi, veri, stagionali. Alici di Fuscaldo, pescate sotto costa, semplici, straordinarie. I crostacei della secca di Secca di Amendolara, conosciuti da chi il mare lo vive davvero. Prodotti che non riempiono i banchi dei supermercati perché non possono garantire quantità infinite. Ma che riempiono i piatti di senso.

Quantità contro qualità

Il mercato moderno chiede continuità. Sempre lo stesso prodotto, tutto l’anno. Il mare non funziona così. Il mare è stagionale, imprevedibile, fragile. E proprio per questo autentico. Pretendere gamberi a dicembre come ad agosto significa forzare un equilibrio. E quando l’equilibrio si forza, qualcuno paga il prezzo. Spesso l’ambiente, spesso la qualità.

Allevamenti intensivi ittici

Anche il pesce, come la carne, conosce la logica dell’allevamento intensivo. Vasche sovraffollate, crescita accelerata, mangimi standardizzati. Ancora una volta, non tutto è illegale, non tutto è nocivo per definizione. Ma è un modello che pone interrogativi seri sul benessere animale, sull’impatto ambientale, sul valore nutrizionale finale del prodotto.

Lavorazione e precottura

Un altro aspetto poco raccontato riguarda la lavorazione. Filetti già puliti, porzionati, talvolta precotti. Il consumatore lo scopre leggendo l’etichetta, se la legge. La precottura non è necessariamente un problema. In alcuni casi è il male minore. Ma resta il fatto che quel prodotto ha già perso gran parte della sua identità. Non è più pesce, è un semilavorato.

Il rischio della disconnessione

Più il cibo diventa anonimo, più perdiamo il legame con ciò che mangiamo. Non sappiamo più riconoscere una stagione, una specie, un odore. Tutto è uguale, tutto è intercambiabile. Ed è qui che nasce il vero rischio. Non sanitario, ma culturale.

Il consumatore vuole davvero non sapere

La domanda più scomoda riguarda proprio chi compra. È possibile che il consumatore finale non voglia aprire gli occhi. Non per cattiveria, ma per comodità. Sapere implica scegliere. Scegliere implica rinunciare a qualcosa. A volte al prezzo più basso, a volte alla disponibilità continua.

Eppure le informazioni ci sono. Le inchieste parlano. Le testimonianze emergono. Ma spesso restano rumore di fondo.

Una terra che non può nutrirsi di cibo spazzatura

La Calabria non è una terra qualsiasi. È mare, montagna, collina. È olio, pesce, ortaggi, legumi, formaggi. È una regione che non può permettersi di nutrirsi di cibo spazzatura senza perdere se stessa. Non per nostalgia, ma per sopravvivenza culturale.

Viaggiare e tornare

Quando viaggiamo ci capita di assaggiare prodotti nuovi, buoni, interessanti. Cucine diverse, tecniche diverse. Ma poi torniamo a casa. E nel confronto con la nostra cucina capiamo qualcosa di fondamentale. Che siamo fortunati. Che ciò che altrove è scoperta, qui è quotidianità. O potrebbe esserlo.

Il valore del confronto

Il confronto non serve a chiudersi, ma a capire. Capire che il pesce globale ha un senso in certi contesti. Ma che il pesce locale ha un valore che va oltre il gusto. È identità, economia, ambiente.

Un invito, ancora una volta

Questa inchiesta non punta il dito. Non accusa pescatori, commercianti, consumatori. Punta a stimolare una riflessione. A stuzzicare. A mettere un granello di dubbio in un meccanismo troppo oliato.

Scegliere due alici locali invece di una busta anonima non cambierà il mondo. Ma cambierà il nostro rapporto con il cibo.

Il pesce che arriva da lontano continuerà ad arrivare. Il mercato globale non si ferma. Ma accanto a quel mercato può esistere una scelta diversa. Più consapevole, più lenta, più vera. La Calabria ha tutto per nutrire se stessa con dignità. Sta a noi decidere se vogliamo essere solo consumatori o anche custodi di un patrimonio che altri, altrove, ci invidiano.