Colpo alla cosca Iannazzo: otto arresti e sequestri a Lamezia Terme
Operazione congiunta di Carabinieri e Polizia, coordinata dalla Dda di Catanzaro: la cosca continuava a gestire affari e intimidazioni tramite prestanome e messaggi dal carcere

Otto persone sono state arrestate a Lamezia Terme, di cui sei condotte in carcere e due poste agli arresti domiciliari, in esecuzione di un’ordinanza emessa dal Gip di Catanzaro. L’operazione è stata condotta dai Carabinieri del Comando provinciale di Catanzaro e dalla Polizia di Stato di Catanzaro e Lamezia Terme, con il coordinamento della Direzione Distrettuale Antimafia di Catanzaro. Gli indagati sono accusati, a vario titolo, di associazione mafiosa, estorsione, usura, intestazione fittizia di beni, accesso illecito a dispositivi di comunicazione per detenuti e detenzione di armi da fuoco. Durante l’operazione sono stati sequestrati una società di autonoleggio e una somma in contanti pari a 7.800 euro.
La cosca Iannazzo: continuità operativa nonostante gli arresti
L’indagine, avviata dal Nucleo Investigativo di Lamezia Terme tra giugno 2020 e settembre 2023, ha fatto luce sulla perdurante operatività della cosca Iannazzo, malgrado i duri colpi inferti dalle operazioni del 2015 e del 2017 che avevano ridimensionato la struttura criminale denominata “Iannazzo - Cannizzaro - Daponte”. Il gruppo, sebbene ridotto a causa della detenzione di numerosi affiliati, ha continuato a esercitare il controllo sul territorio di Sambiase, Sant’Eufemia e sull’area industriale di Lamezia Terme. Il comando veniva mantenuto attraverso la moglie del capocosca, mentre l’organizzazione proseguiva nelle attività di estorsione e usura, interferendo anche in controversie tra privati e offrendo “protezione” in cambio di denaro. I proventi venivano reinvestiti in attività economiche intestate fittiziamente a terzi, ma gestite in modo occulto dalla cosca.
Affari sotto copertura e direttive dal carcere
Uno degli episodi chiave emersi durante l’indagine riguarda una società di autonoleggio situata nei pressi dell’aeroporto lametino. Le quote societarie risultavano intestate a un prestanome, che in realtà agiva sotto la supervisione diretta della cosca. L’uomo, affiancato dalla moglie dipendente dell’impresa, eseguiva le direttive dei veri proprietari occulti, i quali raccoglievano mensilmente i profitti. Ulteriori elementi hanno rivelato che alcune istruzioni operative provenivano addirittura dal carcere: il figlio del boss, detenuto, riusciva infatti a comunicare con l’esterno grazie a un telefono cellulare nascosto in cella, continuando a dettare la linea negli affari di famiglia.