#Maria Chindamo

Maria Chindamo era una commercialista e imprenditrice calabrese, madre di tre figli, vedova dopo il suicidio del marito nel 2015. Intraprese con determinazione un’attività agricola a Limbadi (Vibo Valentia), nel terreno ereditato, gestendolo in autonomia – proprio questo l’avrebbe resa bersaglio dell’‘ndrangheta locale, che puntava a quei terreni. La mattina del 6 maggio 2016, uscì presto per recarsi al podere: la sua auto fu ritrovata davanti al cancello, accesa, con tracce di sangue e capelli ma senza di lei. Nei mesi seguenti, indagini passarono da “scomparsa” a “omicidio”: testimoni‑chiave, collaboratori di giustizia, sostennero che Maria fu assassinata da Salvatore Ascone – proprietario di un terreno vicino – su ordine della cosca che voleva impadronirsi delle sue terre, e che il corpo fu ridotto in modo da sparire, “dato in pasto ai maiali” e poi triturato con un trattore cingolato. Il corpo non è mai stato ritrovato – un tipico caso di “lupara bianca” – e nel marzo 2024 è iniziato il processo contro Ascone (e presumibilmente altri complici) con l’accusa di concorso in omicidio. L’omicidio è considerato un femminicidio mafioso, perché Maria ha pagato con la vita il suo desiderio di autonomia, libertà e indipendenza dalle logiche patriarcali della criminalità organizzata. Oggi, i luoghi della sua azienda agricola sono diventati presidio di memoria e legalità: ogni 6 maggio famiglie, associazioni (tra cui Libera, Penelope, CCO) e comunità presentano iniziative culturali, eventi e installazioni – come una scultura commemorativa – in ricordo del suo coraggio e della lotta contro le mafie

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