Basta sedersi in qualunque ristorante calabrese, dal più semplice agriturismo all’ultimo pub gourmet, per trovarsi davanti a una sfilata di nomi accattivanti: “Carne speciale”, “Black Angus”, “Ribeye selezionata”, “Scottona argentina”, “Chianina australiana”.

Parole che fanno scena, che attirano l’attenzione del cliente, ma che quasi mai raccontano la verità. Perché la verità, oggi, nei piatti calabresi, è la grande assente.

Chi controlla davvero cosa finisce in tavola? Questa è la domanda centrale. Se un ristoratore scrive “Black Angus” sul menù, chi verifica che lo sia davvero? Se la carne arriva già tagliata, confezionata sottovuoto, chi garantisce che non provenga da un macello slovacco o da un allevamento intensivo in Sud America? Chi assicura che non sia stata congelata mesi fa, spedita via nave, e scongelata solo per finire in un hamburger servito come “premium”?

La risposta è nessuno. O quasi.

Controlli? Rari, deboli, inefficaci

In Italia, i controlli sulla carne importata sono eseguiti “a campione”, spesso solo su parametri sanitari minimi: temperatura, certificazione veterinaria, tracciabilità base.
Ma non esiste alcun obbligo legale di dichiarare al consumatore: La razza bovina; l’alimentazione dell’animale; il metodo di allevamento; la provenienza precisa (non basta il “provenienza Ue”); se la carne sia fresca o scongelata; se sia stata lavorata in Italia o all’estero. 

Il menù è carta bianca. Scrivere “carne speciale” è perfettamente legale. Anche se dentro il piatto c’è un taglio di terza scelta, massaggiato con spezie, cotto al sangue per sembrare tenero, ma privo di gusto e di identità.

Il silenzio della legge, l’astuzia del mercato

Questa assenza normativa ha creato una zona grigia dove la ristorazione, spinta dal marketing e dal margine di guadagno, preferisce carni estere: standardizzate, economiche, facilmente porzionabili, dal nome internazionale.

Nel frattempo, le carni calabresi — vere, genuine, locali — restano escluse dal circuito.
Perché sono più difficili da gestire. Perché hanno forme e tagli meno omologati. Perché richiedono conoscenza, attenzione, rispetto.

Un danno alla salute, alla cultura, all’economia

Questo sistema, oggi, danneggia tutti: Il consumatore, che paga per un prodotto premium e riceve carne industriale; gli allevatori calabresi, che non trovano sbocchi nei circuiti locali e vedono morire le razze autoctone; i ristoratori onesti, che vorrebbero proporre carne locale ma vengono schiacciati dalla concorrenza dei tagli sottocosto d’importazione; il territorio, che perde pascoli, biodiversità, tradizioni.

Una carne che non ha nome, non ha valore

Oggi, in Calabria, si consuma carne senza sapere cosa si consuma. Un taglio “particolare” non è sinonimo di qualità. È solo una strategia di marketing. E mentre si rincorre la moda del nome esotico, sparisce il sapore della verità.

La soluzione: serve una rivoluzione culturale (e legale)

Serve una nuova legge sull’etichettatura e sulla trasparenza nei menù: che imponga l’indicazione della razza e dell’allevamento; che distingua carne fresca da carne scongelata; che obblighi i locali a dichiarare se la carne è d’importazione.

Serve un piano di controllo e verifica, a livello regionale e nazionale. Serve una campagna culturale per rieducare i consumatori: a chiedere, a sapere, a scegliere.

E serve, soprattutto, un intervento forte della Regione Calabria: per tutelare le razze autoctone come la Podolica; per sostenere gli allevatori locali; per premiare i ristoratori che scelgono filiere calabresi; conclusione: riportiamo la carne calabrese nei nostri piatti.

La Calabria non può permettersi di perdere la sua cultura della carne. Non può cedere alla logica della plastica confezionata, dei menù-fotocopia, dei tagli internazionali senza origine.

Riportare la carne calabrese nei piatti significa ridare dignità al lavoro, sapore alla tavola, verità all’identità alimentare.

Perché la qualità non si misura con un nome straniero.

Si riconosce dal pascolo, dalla mano dell’allevatore, dal rispetto per chi produce e per chi mangia.