Il Diavolicchio di Diamante
Il Diavolicchio di Diamante

In Calabria il piccante è una lingua madre. Non è un'aggiunta, non è una variante: è un codice genetico, un tratto culturale inciso nella carne e nella terra. Qui il peperoncino non si mette, si tramanda. È il rosso che accende le case, le parole, le pietanze, i racconti dei nonni. Non esiste cucina calabrese senza la sua punta di fuoco. Ma attenzione: ridurre tutto a una sola varietà, a un solo nome, sarebbe un errore da forestieri. Perché la Calabria non ha un solo peperoncino. Ne ha decine. Ognuno con la sua storia, la sua forma, il suo grado di calore. E dietro ognuno, una famiglia, un pezzo di collina, una stagione che ritorna.

Ecco come misurare il piccante

Ma come si misura questo calore? Il mondo ha trovato un modo per dirlo in numeri. Si chiama Scala di Scoville, dal nome del farmacista americano Wilbur Scoville che nel 1912 la ideò per misurare la piccantezza dei peperoncini. In pratica, indica quanta capsaicina – la molecola responsabile della sensazione di bruciore – è presente in ogni varietà. Il valore è espresso in SHU, acronimo di Scoville Heat Units. Più alto è il numero, più intensa sarà la sensazione di fuoco sul palato. Si parte da zero, per i peperoni dolci, e si può arrivare oltre i due milioni per i super piccanti da laboratorio. Il peperoncino calabrese, con le sue molteplici varietà, si muove con orgoglio nella fascia medio-alta della scala: tra sapore, equilibrio e un fuoco che non brucia solo, ma racconta.

Diavolicchio e i suoi fratelli

Il più celebre, oggi, è il Diavolicchio Diamante, piccolo e appuntito, lungo tra i sei e gli otto centimetri, con un colore rosso vivo e una piccantezza stabile intorno ai 40.000–50.000 SHU. È lui il simbolo dell’Accademia Italiana del Peperoncino, fondata a Diamante dal professor Enzo Monaco, ed è lui a sfilare ogni anno nelle collane decorative del Festival del Peperoncino, dove si assaggia, si ride, si suda e si impara che il piccante è anche cultura, medicina, filosofia.

Ma se si scende verso il cuore contadino della regione, si incontrano i fratelli meno noti ma altrettanto fieri. Il Diavolicchio calabrese, ad esempio, che cresce su piante cespugliose alte e resistenti, ha frutti piccoli, aguzzi, con un picco che può raggiungere i 150.000 SHU. È il preferito da chi ama conservarlo sott’olio o ridurlo in crema per accompagnare i formaggi stagionati. Poi c’è il Tre Pizzi, detto anche “Minni di vacca” per la sua forma trilobata e rotonda, originario dell’area di Spilinga: è da lui che prende vita la celebre ‘nduja, perché il suo profumo dolce e il suo calore equilibrato (40–50.000 SHU) si sposano perfettamente col grasso del maiale.

Tra le varietà riconosciute ufficialmente con il marchio Igp ce ne sono quattro che spiccano. Il Ciliegino Calabrese, tondo e carnoso, ha una piccantezza contenuta, tra i 10.000 e i 20.000 SHU, ed è perfetto da riempire con tonno o acciughe, o da conservare sott’aceto. Più sottile e diretta è la Sigaretta Calabrese, rossa e affusolata, capace di raggiungere i 100.000 SHU: viene quasi sempre essiccata e macinata in polveri finissime, da usare con parsimonia nei legumi o negli stufati. La Guglia, conica e leggermente ricurva, si presta bene per le conserve casalinghe, mentre il Naso di Cane, lungo e carnoso, è ideale da grigliare o da ridurre in salse fresche.

Eppure, la vera ricchezza del peperoncino calabrese si nasconde nelle varietà rustiche, quelle che non stanno nei disciplinari ma resistono da secoli. La Spagnoletta Gialla, ad esempio, con il suo colore acceso e una piccantezza che ondeggia tra i 30.000 e i 50.000 Shu, è spesso usata fresca, nelle insalate d’estate o nei piatti a base di pesce. Il Guarda in Cielo, invece, deve il suo nome alla posizione eretta dei frutti, rivolti verso l’alto come lampadine rosse: è sottile, pungente, si essicca in poche ore e regala polveri aromatiche e violente, perfette per chi ama la cucina estrema. Il Calabrese Alberello, il Lungo, il Grosso, il Tondo, il Sottile e il Piccolo sono nomi che cambiano da paese a paese, da collina a collina. Ma tutti appartengono alla stessa stirpe: quella che ha resistito alla standardizzazione, conservando sapori autentici, non mediati, sempre legati al contesto contadino.

Il peperoncino che profuma

E non è solo una questione di calore. Il vero peperoncino calabrese profuma. Ha una base dolce, un accenno di frutto maturo, talvolta di tabacco, talvolta di ciliegia o affumicato. La sua forza non è solo nella capsaicina, ma nella complessità aromatica che accompagna la bruciatura. È questo che lo distingue dai super piccanti tropicali: il fatto che il calore, in Calabria, è parte di un gusto, non una sfida.
Ecco perché in cucina, il peperoncino calabrese è ovunque ma mai invadente. Lo si trova fresco nei soffritti, secco intero appeso alle pareti, in polvere nei barattoli ereditati dalla nonna, in pasta nelle vetrine dei negozi di paese. È parte integrante dei salumi, delle conserve, delle paste condite con la mollica, delle zuppe di legumi. Ma è anche un segno di rispetto: chi lo dosa bene è considerato un cuoco saggio. Chi esagera, un dilettante.

In Calabria, il piccante è una forma di equilibrio. Un sapere che si trasmette con il gesto, con l’assaggio, con la memoria. Non esiste misura fissa, ma esperienza. Non esiste un solo tipo, ma una costellazione di varietà, ognuna figlia del suo pezzo di terra. E in un mondo che premia l’omologazione, la Calabria resiste così: con un morso, una lacrima e un sorriso. Rossa, fiera e inconfondibile.