Fino a qualche decennio fa, in Calabria, la carne era parte integrante della cultura contadina, della quotidianità rurale e della dimensione familiare.

Non era solo un alimento: era un evento, una responsabilità, un sapere condiviso. Si sapeva chi era l’allevatore, dove pascolava il bestiame, cosa aveva mangiato il vitello e quando sarebbe stato macellato.

In molti paesi, si conosceva addirittura il nome dell’animale. E quella carne — quando arrivava in tavola — aveva un’identità precisa, un’origine tracciabile, un sapore unico.

Oggi tutto questo sembra preistoria.

Oggi, anche nei ristoranti più legati alla tradizione, ci troviamo davanti menù che propongono tagli con nomi anglosassoni, grammature da catena americana e provenienze non dichiarate.

“Tomahawk”, “Ribeye”, “Black Angus”, “Scottona Argentina”. Ma se chiedi la razza, l’alimentazione, l’azienda di provenienza, spesso scende il silenzio.

Una Calabria che dimentica le sue razze

Nel frattempo, le razze autoctone calabresi scompaiono dalle stalle e dai piatti.
Si estinguono lentamente, nell’indifferenza di una regione che potrebbe avere un patrimonio zootecnico invidiabile, ma che ha smesso di valorizzarlo.

Ecco alcune delle razze storiche da salvare, promuovere, riportare in vita: La Podolica Calabrese: una razza rustica, allevata al pascolo, resistente, abituata alla montagna e al caldo. Produce una carne marezzata, succosa, dal sapore pieno e selvatico. È la razza regina della transumanza calabrese, legata al formaggio Caciocavallo Silano Dop ma anche a tagli da griglia che nulla hanno da invidiare a quelli esteri.

La Frentana e la Modicana: razze che un tempo popolavano le aree interne e montane del Sud, oggi in via di estinzione. Più difficili da allevare, certo, ma portatrici di un’identità gastronomica fortissima.

Le vacche miste locali, frutto di incroci tra razze calabresi, Charolaise, Limousine o Piemontese, che se allevate al pascolo e nutrite correttamente, possono dare carni dalla grande tenuta in cottura e da un sapore riconoscibile.

Eppure, nei menù calabresi, queste carni non compaiono quasi mai. Non vengono promosse, non vengono raccontate, non vengono chieste.

La carne, oggi: sottovuoto, standardizzata e senza anima

La maggior parte dei locali calabresi propone oggi tagli preconfezionati provenienti dall’estero, con etichette che recitano laconici “origine Ue” o “origine non Ue”.

Tradotto: non si sa da dove vengano, cosa abbiano mangiato, come siano stati allevati.

Molti provengono da allevamenti intensivi, dove gli animali vivono pochi mesi, in spazi chiusi, ingrassati in fretta con mangimi standardizzati, per produrre carni tutte uguali, belle da vedere, facili da cucinare ma povere di sapore.

È questa la carne “speciale” che finisce nei nostri piatti.
È questa la carne che oggi costa 40 euro al chilo al ristorante, ma che il ristoratore acquista a 7,90 sotto vuoto, con porzioni predefinite, pronte da grigliare.

Perché succede? Moda, ignoranza e assenza di controllo

La vera domanda è: perché ci siamo ridotti così? Perché un cuoco calabrese, che avrebbe a disposizione vacche podoliche, allevatori locali, stalle di qualità, preferisce servire una tomahawk rumena?

La risposta è triplice: moda, ignoranza, mancanza di controllo.

Moda: perché oggi il nome fa tutto. Se scrivi “black angus” il cliente pensa automaticamente che stia mangiando carne di lusso. Ma nessuno gli spiega che spesso non è nemmeno vero. “Angus” è una razza, non un marchio.

Ignoranza: molti ristoratori non conoscono nemmeno le razze locali, non le hanno mai assaggiate, e non sanno come valorizzarle.

Assenza di controllo: in Italia non esiste un obbligo chiaro di indicare nei menù la razza dell’animale, l’alimentazione, o il metodo di allevamento.
Chi scrive “carne speciale” può farlo liberamente, anche se si tratta di tagli industriali congelati.
Chi verifica? Nessuno.

Un’ingiustizia economica, culturale e alimentare

La carne locale, in Calabria, non è solo una questione gastronomica. È una questione economica.

Sostenere le razze autoctone significa aiutare gli allevatori, evitare lo spopolamento delle aree interne, promuovere la biodiversità.

Significa valorizzare il territorio, raccontarlo, proteggerlo.

Ma se la carne buona, vera, locale, non trova spazio nei ristoranti e nelle mense, se non viene sostenuta dalle istituzioni, se viene ignorata dal turismo e dai consumatori, allora finisce inevitabilmente per scomparire.

La carne è una scelta politica. E la Calabria deve decidere

Vogliamo continuare a rincorrere tagli anonimi, plastificati, industriali?
O vogliamo tornare a servire la carne vera, quella della nostra terra, dei nostri allevatori, della nostra storia?

Ogni menù è una scelta. Ogni forchetta è un atto politico. Ogni bistecca, un messaggio.

Scegliere carne calabrese non è solo una questione di sapore: è un atto di giustizia, di memoria, di economia. È un modo per dire che ci ricordiamo da dove veniamo. E che vogliamo ancora mangiare con coscienza.