Negli anni ’90, la narrazione dominante sulla 'Ndrangheta cominciava a cambiare. Non era più solo un fenomeno “del Sud”, confinato nelle aspre montagne calabresi. I riflettori si accesero anche sulle ramificazioni settentrionali, e tra i nomi più ricorrenti nelle inchieste giudiziarie c’era quello della cosca Serraino. Famiglia potente, violenta e silenziosa, i Serraino si trovarono progressivamente schiacciati dalla pressione congiunta di magistratura e forze dell’ordine. Eppure, non è mai bastato un processo per spegnere una 'ndrina.

Gli anni della stretta: Olimpia, Belgio e la fine di un’Era

Il decennio che segue il crollo di Tangentopoli è anche il decennio delle grandi operazioni antimafia. Le inchieste "Olimpia" e "Belgio" furono veri terremoti per la criminalità organizzata calabrese trapiantata al Nord. Con decine di arresti e condanne, i Serraino furono decapitati. Le autorità parlarono di "svolta", di "fine di un'epoca", di "smantellamento della rete". Tra le figure centrali cadute in manette c’è Paolo Serraino, leader riconosciuto e temuto, condannato a tre ergastoli. Il suo arresto nel 1995 segnò un punto di non ritorno: l’immagine pubblica della cosca ne usciva devastata, ma l'organizzazione, come da manuale mafioso, non scomparve.

Il fantasma dei Serraino: L’illusione della fine

È stato facile — troppo facile — pensare che con i capi in carcere tutto fosse finito. Ma la 'Ndrangheta non muore con i suoi boss, si riorganizza. E i Serraino, pur ridimensionati, sono sopravvissuti. Le operazioni "Araba Fenice" e "Epilogo", portate avanti negli anni 2000 e 2010, hanno dimostrato che la cosca non ha mai davvero smesso di operare. Ha solo cambiato pelle: meno visibile, più finanziaria, ancora radicata nei circuiti economici e nei giri di droga ed estorsioni.

Nonostante le batoste giudiziarie, la rete familiare è rimasta intatta, le alleanze non si sono dissolte e il nome Serraino continua a circolare tra gli investigatori. Le nuove generazioni, spesso cresciute all’ombra dei “grandi” finiti in carcere, stanno riscrivendo il futuro della cosca, con modalità meno plateali ma altrettanto pericolose.

Il futuro: Resurrezione o declino?

E adesso? La domanda è scomoda, ma inevitabile: che ne sarà dei Serraino? Possono davvero rialzarsi? La storia della criminalità organizzata insegna che non esistono cosche sconfitte in via definitiva, solo cosche momentaneamente rallentate. Già altre famiglie, date per morte dopo arresti eccellenti, sono tornate in auge con nuovi assetti e nuove strategie. E con un patrimonio economico e relazionale come quello dei Serraino, l’ipotesi di una rinascita non è affatto remota.

Ma c’è di più. Il vero rischio, oggi, non è il ritorno dei kalashnikov, ma l’evoluzione “manageriale” del clan: quella che si insinua nei subappalti pubblici, negli appalti privati, nei cantieri, nelle cooperative, nelle imprese edili e nei ristoranti di facciata. Una mafia 4.0, capace di operare sotto traccia, dove l’intimidazione non avviene più a colpi di pistola, ma con fatture, finte partnership e corruzione sistemica.

Un monito, non un epilogo

La parabola giudiziaria dei Serraino è un monito: anche i clan apparentemente smantellati possono ricompattarsi. Pensarli finiti significa abbassare la guardia, ed è proprio questo che la 'Ndrangheta aspetta. Perché ogni processo è una tappa, non una conclusione. E ogni arresto può essere l’occasione per riorganizzarsi nell’ombra.

La caduta dei Serraino è stata reale, ma la vera sfida è impedire che si trasformi, ancora una volta, in una rinascita silenziosa e devastante.

Finale amaro: Dove sono oggi i beni confiscati ai Serraino?

Quando si parla della lotta alla ‘Ndrangheta, l’immaginario collettivo si ferma spesso agli arresti e alle condanne. Ma il vero banco di prova della giustizia arriva dopo: quando si tratta di decidere che fare dei beni confiscati ai clan mafiosi. E nel caso della cosca Serraino, la questione è tutt’altro che secondaria.

Nel corso di anni di operazioni antimafia, allo storico clan di origine calabrese sono stati sequestrati immobili, terreni, aziende, conti bancari, ristoranti, bar e appartamenti. Un patrimonio che vale milioni di euro e che avrebbe dovuto rappresentare il simbolo della vittoria dello Stato sulla criminalità. Ma la realtà, come spesso accade in Italia, è ben diversa.

Lo Stato ha vinto… ma poi?

Molti dei beni confiscati ai Serraino — in particolare in Lombardia e in Calabria — versano oggi in stato di abbandono. Alcuni edifici sono diventati ruderi, altri sono chiusi da anni in attesa di un progetto di riqualificazione, mentre alcune società sequestrate sono fallite senza che nessuno le riconvertisse. Dove è finita la tanto sbandierata "restituzione alla collettività"? Che fine ha fatto la promessa di trasformare i luoghi del potere mafioso in strumenti di rinascita sociale?

Opportunità perse, silenzi colpevoli

Il punto è che la gestione dei beni confiscati è un meccanismo inceppato, spesso rallentato da burocrazia, mancanza di fondi, scarso coordinamento tra enti locali e agenzie nazionali. I bandi per l’assegnazione restano deserti, i progetti restano sulla carta, e le strutture che un tempo erano simbolo del dominio mafioso rischiano di diventare monumenti all’inefficienza dello Stato.

Eppure le potenzialità sono enormi. Alcuni esperti e associazioni propongono di trasformare questi beni in centri culturali, scuole, palestre popolari, cooperative agricole, laboratori di legalità. Progetti che potrebbero creare lavoro, costruire consapevolezza e invertire la narrativa nei territori martoriati dalla mafia. Ma per farlo servono coraggio, visione e una volontà politica che — finora — è rimasta timida e intermittente.

Un’eredità ancora contesa

La domanda finale è scomoda ma necessaria: chi ha davvero vinto? Se i beni tolti ai mafiosi vengono lasciati a marcire, non si sta forse tradendo la memoria di chi ha combattuto per sottrarli? Se il simbolo della vittoria dello Stato si trasforma in simbolo di immobilismo, non si corre il rischio che le mafie tornino a percepirsi invincibili?

Oggi, il destino dei beni confiscati ai Serraino è ancora incerto. Ma una cosa è chiara: la battaglia contro la mafia non finisce con un arresto, inizia con ciò che si fa dopo. E in questa battaglia, lo Stato è ancora lontano dal vincere davvero.