Ci sono serate in cui, spegnendo il televisore, non rimane il sapore dell'intrattenimento, ma l'amaro in bocca di uno spettacolo indecoroso. 
Serate in cui il confine tra narrazione televisiva e sfruttamento del grottesco viene non solo superato, ma completamente demolito.
L'episodio andato in onda ieri sera su Rai 2, in quella prima serata che dovrebbe rappresentare un fiore all'occhiello del servizio pubblico, è stato un manifesto di questa deriva: la mortificazione di persone, storia e tradizioni in nome di un punto di share.

Cronaca di una mortificazione annunciata

Il copione, purtroppo, è di quelli già visti. Al timone della trasmissione, un conduttore la cui carriera è costruita più sulle polemiche che sul talento, un personaggio televisivo volutamente divisivo, indigesto a molti, che ha fatto del suo modo di porsi opinabile un marchio di fabbrica. 

Un professionista allontanato e criticato da numerosi colleghi proprio per una spregiudicatezza che spesso sconfina nella mancanza di rispetto.
Il format della serata prevedeva di raccontare una comunità, un paese italiano.

Ma il racconto si è trasformato presto in una farsa. Invece di esplorare l'autenticità, la storia e il valore di un territorio, la produzione ha preferito mettere in scena una galleria di personaggi al limite del caricaturale.

Si faticava a comprendere se le persone inquadrate rappresentassero realmente la popolazione locale o se fossero, come il dubbio sorgeva spontaneo, figure "importate" da contesti limitrofi, selezionate non per le loro doti, ma per la loro presunta eccentricità, facilmente deridibile.

Il risultato è stato un ritratto umiliante, una sequenza di sketch di cattivo gusto che hanno trasformato una comunità viva e pulsante in un circo di paese, offerto in pasto a un pubblico nazionale in cerca di distrazioni facili.

Il fallimento delle istituzioni e il patto con la banalità

Ciò che ha reso la scena ancora più desolante, tuttavia, è stata la palese complicità delle istituzioni locali. Invece di tutelare l'immagine dei propri cittadini e del proprio patrimonio culturale, l'amministrazione ospitante ha scelto la via della visibilità a ogni costo. L'immagine del sindaco che, inquadrato più volte, rideva a crepapelle di fronte a quella che era a tutti gli effetti una denigrazione della sua gente, rimarrà come il simbolo di un fallimento.

È il patto faustiano dei nostri tempi: barattare la dignità e l'identità di una splendida comunità per una manciata di minuti di pessima televisione, nella speranza che "purché se ne parli" sia un motto sempre valido. 
Ma non ogni visibilità è un valore. Esiste una visibilità tossica, che macchia e lascia cicatrici profonde, difficili da cancellare. Apparire in televisione non può e non deve significare accettare di essere trasformati in una macchietta.

Oltre la pena, una riflessione necessaria

Alla fine della trasmissione, ciò che rimane è una pena indescrivibile. 
La pena per le persone usate come materiale di scena. 
La pena per una storia e tradizioni calpestate sull'altare dell'auditel. 
La pena per un servizio pubblico che tradisce la sua missione culturale ed educativa per inseguire le logiche più becere della televisione commerciale.
Questo episodio non è un caso isolato, ma il sintomo di una malattia più profonda che affligge una parte del nostro sistema mediatico: la convinzione che per intrattenere sia necessario umiliare, che per far ridere si debba deridere e che la realtà, con le sue sfumature e la sua dignità, sia meno interessante di una sua versione distorta e volgare.

Resta da chiedersi dove sia il limite. E, soprattutto, chi debba porlo. 
I produttori, gli autori, i vertici della televisione pubblica? 
O forse anche noi, come pubblico, spegnendo il televisore di fronte a spettacoli che non hanno nulla di spettacolare, ma solo il sapore amaro dell'indecenza.