Salumi calabresi
Salumi calabresi

In Calabria esistono aziende straordinarie. Realtà piccole e grandi che producono salumi, formaggi, conserve, eccellenze riconosciute anche fuori dai confini regionali. Fin qui, nulla di strano. Anzi, è un patrimonio di cui andare fieri. Ma come spesso accade, quando ci si ferma alla superficie tutto sembra coerente. È quando si scava un po’ più a fondo che iniziano le domande. Domande semplici, quasi ingenue, ma proprio per questo difficili da ignorare. Una su tutte. Se un’azienda produce salumi in grandi quantità, da dove arrivano i maiali.

La domanda che nessuno ama fare

Produrre salumi non è un atto astratto. Richiede materia prima. Richiede animali. Richiede allevamenti. Richiede tempo, spazio, cibo, cura. Eppure, osservando il panorama produttivo, emerge una discrepanza che colpisce anche l’osservatore meno esperto. In alcune aree non esistono allevamenti proporzionati alla quantità di salumi immessi sul mercato. Non esistono, semplicemente perché non potrebbero esistere per numeri, spazi, strutture. E allora la domanda non è polemica, è logica. Com’è possibile tutto questo.

La risposta è meno complessa di quanto sembri

La risposta è nella normativa. In Italia è possibile importare carne dall’estero, nel rispetto di determinati requisiti sanitari e documentali. Una volta arrivata sul territorio nazionale, quella carne può essere lavorata, trasformata, stagionata. E a quel punto, dal punto di vista legale, il prodotto trasformato diventa italiano. In questo caso, lavorato in Calabria, può diventare anche calabrese. È tutto consentito. È tutto tracciabile. È tutto formalmente corretto. Ma tra ciò che è legale e ciò che è chiaro per il consumatore c’è uno spazio enorme. Ed è proprio in quello spazio che nasce l’equivoco.

Da mezzena a tradizione

Facciamo un esempio concreto, senza nomi, senza marchi, senza accuse. Una mezzena di suino arriva da una generica nazione dell’Unione europea. Entra in Calabria. Viene lavorata in un laboratorio locale. Diventa soppressata, salsiccia, pancetta. Viene confezionata con un nome che richiama la tradizione. Spesso con colori, simboli, parole che evocano immediatamente la Calabria. Il prodotto è regolare. Ma il maiale non è calabrese. Non lo è mai stato.

Il gioco delle associazioni mentali

Qui non siamo nel campo dell’inganno diretto. Siamo in qualcosa di più sottile. Il consumatore legge “soppressata”, “salsiccia”, “pancetta” e automaticamente associa quei termini alla Calabria. Alla storia. Ai paesi. Ai nonni. Alla tradizione contadina. È un’associazione culturale, non giuridica. E proprio per questo è potentissima.

Se poi sull’etichetta compare una dicitura come “antipasto calabrese”, l’associazione diventa quasi automatica. Solo leggendo con attenzione, molto attenzione, si scopre che la carne proviene dall’Unione europea. Non dalla Calabria. Non dall’Italia, talvolta. Dall’Unione europea. Tutto scritto. Tutto legale. Ma tutto davvero comprensibile.

L’esperienza diretta

È capitato di prendere in mano una confezione in un supermercato calabrese. Un prodotto ben confezionato, curato, con un nome fortemente evocativo. “Antipasto calabrese”. Solo dopo aver letto la parte meno visibile dell’etichetta emerge l’origine della carne. Un’indicazione generica, che rimanda a un insieme di Paesi, non a un territorio preciso. Il punto non è demonizzare chi lo fa. Il punto è chiedersi se questo sistema non finisca per confondere, più che informare.

La differenza tra trasformazione e filiera

In Calabria esistono anche altre realtà. Realtà che sono filiera. Realtà che allevano, macellano, trasformano. Realtà più piccole, talvolta più costose, spesso meno presenti nella grande distribuzione. Ma realtà vere. Animali allevati sul territorio, con spazi adeguati, con alimentazione controllata, con un legame diretto tra chi produce e chi trasforma. Questa è la differenza che spesso sfugge. Trasformare non significa produrre. Lavorare carne non significa necessariamente conoscere l’animale da cui proviene.

La filiera corta non è uno slogan

Quando si parla di filiera, non si parla di marketing. Si parla di coerenza. Si parla di tracciabilità reale, non solo documentale. Si parla di sapere da dove arriva ciò che mangiamo, non in senso astratto, ma concreto. Un allevamento. Un territorio. Un metodo.

Le aziende di filiera calabresi esistono. Resistono. E spesso faticano. Faticano perché competono con prodotti che costano meno, perché la carne importata ha prezzi più bassi, perché il consumatore medio guarda prima il costo e poi l’origine.

Il paradosso calabrese

Il paradosso è evidente. Una regione che potrebbe valorizzare se stessa, finisce per promuovere un’immagine che non sempre corrisponde alla realtà produttiva. Si vende “calabresità” anche quando la materia prima non è calabrese. E questo, nel lungo periodo, indebolisce proprio chi quella calabresità la incarna davvero. Non è una truffa. È un corto circuito culturale.

Il confine sottile della responsabilità

La responsabilità non è solo delle aziende. È anche del sistema distributivo, della comunicazione, della scarsa educazione alimentare. E, in parte, anche del consumatore, che spesso non legge, non chiede, non approfondisce. Non per colpa, ma per abitudine.

Eppure basterebbe poco. Più chiarezza sulle etichette. Meno ambiguità nei nomi. Più distinzione tra “lavorato in Calabria” e “prodotto da carne calabrese”.

Perché le parole contano

Chiamare un prodotto “calabrese” non è neutro. Significa evocare un patrimonio collettivo. Significa usare un’identità. E l’identità, quando viene usata senza sostanza, si consuma. Si svuota. Diventa etichetta, non contenuto. Il rischio è che, alla fine, tutto sia calabrese e nulla lo sia davvero.

Un invito, non una condanna

Questo non è un atto d’accusa. È un invito. Un invito a scegliere consapevolmente. A premiare le realtà di filiera. A cercare chi alleva, chi cresce gli animali, chi li rispetta. A pagare qualcosa in più, se serve, per avere qualcosa di autentico.

Consumare carne di filiera significa sostenere l’economia locale. Significa ridurre i passaggi. Significa sapere cosa arriva nel piatto.

La differenza la fa il cittadino

Alla fine, come sempre, la differenza la fa chi compra. Ogni acquisto è un messaggio. Ogni scelta rafforza un modello. Continuare a scegliere prodotti che sono solo “calabresi sull’etichetta” significa accettare un sistema ambiguo. Scegliere prodotti di filiera significa dare un segnale diverso. Non serve essere estremisti. Serve essere informati.

In Calabria non manca la qualità. Non manca la tradizione. Non mancano le aziende serie. Quello che spesso manca è la distinzione chiara tra ciò che è davvero calabrese e ciò che lo diventa solo dopo una lavorazione. Tutto legale, certo. Ma non tutto equivalente.

Se vogliamo difendere davvero la nostra identità alimentare, dobbiamo andare oltre il nome del prodotto. Dobbiamo leggere, chiedere, scegliere. E soprattutto premiare chi, dietro quella parola “calabrese”, mette una storia vera. Non solo un’etichetta.