Il rapimento-omicidio di Giuseppe Bertolami: quarant’anni di attesa per una verità negata
Il 12 ottobre 1983 sparì l’imprenditore florovivaista lametino, vittima della ’ndrangheta; corpo mai ritrovato, famiglia in lotta per memoria e giustizia
				Era il 12 ottobre 1983 quando Giuseppe Bertolami, imprenditore florovivaista originario della Sicilia e residente nella piana lametina, uscì dalla sua azienda a bordo della propria auto. Quel pomeriggio, lungo la statale 18 in corrispondenza dell’uscita della sua vettura, l’uomo venne prelevato e scomparve nel nulla. L’inizio di un incubo: l’ipotesi dell’agguato a scopo di sequestro si trasformò ben presto in una tragedia senza corpo, senza congedo, senza spiegazioni definitive. Per Bertolami non fu pronunciato un omicidio in senso classico, ma la sua sparizione a opera di soggetti riconducibili alla ’ndrangheta lo segna come vittima mafiosa: un caso irrisolto che resta ferita aperta nella memoria collettiva.
Un imprenditore controcorrente, ostacolo della criminalità
La figura di Bertolami usciva dai contorni ordinari: alla guida di una società vivaistica che dava lavoro a numerose persone nella zona, aveva assunto pubblicamente una posizione netta contro le “vendite di morte” legate al traffico di droga e agli interessi delle cosche nella Piana di Lamezia. La sua notorietà, la sua credibilità sul territorio e il rifiuto della logica corruttiva lo resero un soggetto scomodo. È in questo contesto che va letta la sua sparizione: non un semplice sequestro estorsivo, ma un’azione inserita nella logica mafiosa dei controlli del territorio, dei silenzi imposti e delle conseguenze letali per chi si sottrae al ricatto.
Una verità che tarda ad arrivare e il dolore della famiglia
Quarant’anni dopo quel 12 ottobre, la famiglia di Bertolami non ha mai potuto deporre un fiore su una tomba né chiudere un capitolo. Le trattative con i rapitori – avviate con richieste di riscatto milionarie – vennero interrotte bruscamente. Nessun corpo fu mai restituito, nessun mandante individuato in via definitiva. Il figlio Carmelo ha più volte ricordato che «non avere un corpo sul quale posare un fiore è il dolore più grande». Questo silenzio giudiziario e sociale fa del caso Bertolami uno dei simboli della Calabria che fatica a riconoscere e a fare i conti con le proprie vittime.
Memoria, impegno civico e responsabilità collettiva
La vicenda di Bertolami è entrata nel tessuto delle iniziative di memoria attiva, coinvolgendo associazioni, scuole e realtà impegnate contro le mafie. Il suo nome viene evocato per ribadire che «non c’è legalità senza giustizia», e che le vittime silenziose del crimine organizzato meritano verità come chiunque altro. Il territorio della Piana di Lamezia – spesso oscurato nei riflettori – ospita così una storia esemplare: imprenditore, comunità, mafia. E ancora oggi il richiamo è chiaro: la Calabria non può chiudere gli occhi, non può voltarsi e sperare che il tempo cancelli le tracce della violenza.
La promessa ancora da mantenere
Il caso di Giuseppe Bertolami non è solo cronaca di un uomo scomparso o di un sequestro finito male, è un richiamo a una cultura della giustizia che deve farsi concreta. Verità, indagini, procedimenti: tutto è rimasto aperto. E quando una comunità non riesce a chiudere le ferite, cresce il rischio che la memoria svanisca. Il futuro chiede responsabilità: non solo per le istituzioni, ma per tutti coloro che credono che la lotta alle mafie passi anche attraverso la dignità riconosciuta a chi è stato ucciso o fatto sparire. Guarire significa anche onorare la promessa fatta quattro decenni fa: “non dimenticare, non rinunciare”.