San Ferdinando
San Ferdinando

Nel pomeriggio del 26 novembre 1990, il 42enne commercialista Ferdinando Barbalace perse la vita in un drammatico agguato mafioso a San Ferdinando, in provincia di Reggio Calabria. Barbalace, che si trovava di passaggio su una strada rurale della Piana, si fermò credendo di assistere a un incidente stradale. Quel gesto pietoso si trasformò in tragedia: i sicari, appostati nelle vicinanze per un regolamento di conti contro un altro uomo, colpirono anche Barbalace. La circostanza fu chiarita da fonti investigative: «ucciso per non lasciare testimoni».

Quella mattina infatti era stato fatto fuori Rocco Tripodi, un commerciante coinvolto in contese criminali locali. I killer, dopo aver assassinato Tripodi, attesero il passaggio di testimoni scomodi: Barbalace fu uno di questi. La dinamica del delitto appare brutale: mentre Barbalace scendeva dalla sua auto per avvicinarsi alla scena ritenuta un incidente, fu raggiunto dai colpi di lupara. Il suo corpo venne trovato accasciato sul suolo tra agrumeti, con numerose ferite da arma da fuoco, testimone silenzioso di una Sicilia calabrese ferita nella sua morbosità mafiosa.

Un uomo rispettato e una famiglia sconvolta

Ferdinando Barbalace non era personaggio pubblico in lotta con la criminalità; era piuttosto un professionista stimato, un commercialista che conduco la sua vita con rettitudine e dedizione. Era conosciuto in paese come uno che rispettava la legge, che non cercava scontri e che, quel giorno, aveva solo voluto prestare aiuto — un impulso umano che gli fu fatale. In molti ricordano la sua figura come esempio di integrità, tradito dalla violenza mafiosa che non sempre sceglie la “persona giusta” per uccidere, ma mira a instillare paura ovunque.

La famiglia di Barbalace rimase distrutta: un omicidio che pareva casuale, ma che nascondeva una logica spietata. Quel drammatico episodio ruppe il silenzio di molti cittadini, alimentando un sentimento di rivolta contro il potere criminale locale. Col tempo, Barbalace venne inserito nell’elenco delle vittime innocenti delle mafie, accanto ad altre persone colpite non per cosa avevano fatto, ma per dove si trovavano nel momento sbagliato.

Ricostruzioni e riflessioni

Nel corso degli anni, storici e inquirenti hanno ricostruito che il vero bersaglio dell’agguato fosse Tripodi, ma che Barbalace fosse stato aggiunto in quell’istante al novero delle vittime per impedire testimoni. I colpi di lupara utilizzati, l’ambientazione agreste e la scelta del momento denotano una pianificazione tipica di “risoluzioni mafiose”.

La Calabria di allora era attraversata da tensioni criminali interne: gruppi mafiosi che si contendono il controllo del territorio, dell’economia e delle rotte illecite. In quel contesto, la morte di un professionista per un equivoco “sospetto” recupera tutto il suo valore simbolico: la mafia che uccide chiunque passi, che devasta il tessuto sociale, che insegna con la paura.

L’eredità della memoria e il bisogno di giustizia

A distanza di decenni, l’omicidio di Barbalace resta una ferita aperta per la Calabria. In molte città, scuole e campagne si celebra la memoria delle vittime innocenti: il suo nome è evocato nei momenti pubblici di contrasto alla mafia, nelle cerimonie civili, nei progetti educativi che tramandano la storia alle giovani generazioni.

La ricerca di verità e giustizia non può fermarsi. Pur non essendoci, ad oggi, una condanna definitiva per tutti i mandanti, il caso di Barbalace rappresenta un monito sulla pericolosità dell’indifferenza. In Calabria, ogni cittadino — professionista, imprenditore, studente — cammina su una terra percorsa da radici criminali che vanno estirpate non solo con l’azione penale, ma con l’impegno culturale, l’educazione alla legalità e la partecipazione attiva.

La storia di Barbalace insegna che un gesto semplice — fermarsi per aiutare — non deve essere interpretato come debolezza, ma come testimonianza di umanità. E che proprio questa umanità è la scintilla da accendere ogni giorno contro la violenza e la sopraffazione mafiosa.