Dove sta la verità? Il caso Chimirri tra violenza, emozioni e giustizia.
Tutto ha avuto inizio con un controllo della polizia stradale su una Dacia Duster, guidata da Francesco Chimirri.

Secondo gli inquirenti, che hanno eseguito l'ordinanza di arresto emessa dal gip di Crotone, Domenico Chimirri (classe 1957), Antonio Chimirri (classe 1983), Mario Chimirri (classe 1988) e Domenico Chimirri (classe 2006), avrebbero agito con un’unica «volontà omicida», alimentata da futili motivi e dalla consapevolezza di colpire un poliziotto nell’esercizio delle sue funzioni.
L’accusa è grave: tentato omicidio pluriaggravato.
Tutto ha avuto inizio con un controllo della polizia stradale su una Dacia Duster, guidata da Francesco Chimirri, per condotta pericolosa sulla SS106. L’agente Michele Sortino si è avvicinato con pacatezza al veicolo, ma la situazione è precipitata rapidamente. Secondo il gip di Crotone, Elisa Marchetto, l’incontro si è trasformato in un’aggressione fisica: Francesco Chimirri e suo figlio Domenico (classe 2006) avrebbero attaccato Sortino, colpendolo ripetutamente con una violenza definita selvaggia e priva di razionale giustificazione. Le violenze, sempre secondo il gip, si sarebbero intensificate quando altri membri della famiglia Chimirri – Antonio (classe 1983), Mario (classe 1988) e Domenico senior (classe 1957) – si sono uniti all’assalto. Gli aggressori, descritti dagli inquirenti come un branco, avrebbero braccato l’agente Sortino, che ha tentato invano di fuggire. La situazione ha raggiunto il culmine quando Sortino, nel disperato tentativo di salvarsi, ha esploso un colpo di pistola che ha ucciso Francesco Chimirri. Questa è la versione degli inquirenti.
Per la famiglia Chimirri
La morte di Francesco rappresenta il fulcro della vicenda. Secondo loro, Francesco avrebbe reagito in un momento di estrema tensione, senza premeditazione o volontà di generare un’escalation di violenza. La famiglia sottolinea come il colpo di pistola sparato dall'agente Sortino sia stato un atto fatale e sproporzionato. La perdita di Francesco, un padre e lavoratore conosciuto e stimato nel quartiere, rappresenta una grande tragedia familiare.
I familiari respingono l’idea di una furia omicida attribuita agli eventi successivi allo sparo.
Sostengono che la rabbia e la reazione siano state dettate dal dolore immediato per la morte di Francesco, descrivendo il comportamento dei parenti coinvolti come quello di persone sopraffatte dall’emozione, e non come azioni consapevoli di un branco. Secondo i legali della famiglia, l’aggressione a Sortino, sebbene grave, ma va letta in un contesto di lutto improvviso e di caos emotivo.
La verità tra le due versioni opposte – quella degli inquirenti e quella dei familiari di Francesco Chimirri – sarà un compito arduo e delicato da accertare.
Da un lato, la ricostruzione giudiziaria dipinge un quadro di violenza brutale e premeditata, culminata in un’aggressione organizzata ai danni di un agente di polizia; dall’altro, la famiglia Chimirri insiste su una narrativa in cui la morte di Francesco ha innescato reazioni emotive e caotiche, non un’azione pianificata.
Il caso
Solleva interrogativi profondi sul confine tra legittima difesa, dinamiche emotive e responsabilità penale. Mentre la giustizia si appresta a fare luce su quanto accaduto, resta evidente che emozioni, perdita e dolore abbiano giocato un ruolo significativo in una vicenda tragica, che ha distrutto vite da entrambe le parti. Alla fine ciò che emergerà non sarà solo una sentenza, ma un’opportunità per comprendere come episodi di violenza possano degenerare rapidamente, con conseguenze devastanti per tutte le persone coinvolte. La verità sarà quella costruita sui fatti, ma dovrà anche rendere giustizia alla complessità umana di una vicenda che ha sconvolto un’intera comunità.