Le ciliegie dell’inganno: in Calabria frutti dal sapore amaro. Prezzi folli e provenienze oscure per battere il tempo
Mentre la natura calabrese aspetta il suo corso, il mercato la salta a piè pari: ciliegie premature, importate da chissà dove, vendute a cifre esorbitanti. E intanto, i produttori locali guardano le loro piante ancora verdi e muti

Ci sono cose che si capiscono subito. E altre che restano un mistero. Le ciliegie nei banchi dei mercati e dei supermercati calabresi, in questi giorni, fanno parte della seconda categoria. Apparentemente rosse, tonde, lucide. Ma da dove vengono davvero? E perché costano come un piatto di pesce fresco?
Il paradosso è evidente: le piante calabresi sono ancora in fiore, i frutti maturano in ritardo rispetto al resto del Sud, ma nei mercati le ciliegie già abbondano. Da giorni.
Chi le vende raramente indica la provenienza. A volte c’è scritto “origine Ue”, altre volte neanche quello. Molti commercianti non sanno rispondere con certezza. Alcuni azzardano: “Vengono dalla Puglia”.
E qui comincia il cortocircuito: perché portare ciliegie da fuori, a prezzi anche di 10-12 euro al chilo, quando basterebbe aspettare pochi giorni per avere quelle prodotte a chilometro zero, buone, saporite, sostenibili?
Il mercato dell’ansia e del guadagno
È la logica della velocità, quella che brucia le stagioni, anticipa la natura, cancella il territorio.
Bisogna vendere subito, fare prima, guadagnare adesso.
Il consumatore, spesso ignaro, compra. Per gola. Per moda. Perché le ha viste. Non si chiede da dove arrivino, che impatto abbiano, che senso abbia pagare cifre così alte per frutti che — in molti casi — sono stati raccolti ancora acerbi e “gonfiati” in cella frigo.
In alcuni casi, come abbiamo potuto verificare direttamente, le ciliegie arriverebbero dalla Puglia. Regioni vicine, è vero. Ma il punto non è la distanza. È la logica: perché importare se la Calabria produce? Perché spingere frutti “stranieri” quando i nostri alberi sono pronti a dare, basta saper aspettare?
Provenienze misteriose, etichette vaghe
La questione si fa ancora più seria quando si entra nel campo della trasparenza.
In alcuni mercati cittadini e supermercati della fascia ionica cosentina e della zona di Lamezia Terme, le cassette non riportavano etichette leggibili, né dettagli sulla zona di raccolta.
“Ciliegie Italia” – si leggeva. Ma quale Italia? Chi le ha raccolte? Quando?
La normativa italiana prevede l’obbligo di etichettatura trasparente, ma il controllo è sporadico. E in mezzo al via vai delle merci, spesso si chiude un occhio.
Un problema non solo economico, ma anche etico, culturale, identitario.
E i produttori calabresi? In attesa. E in silenzio.
Mentre tutto questo succede, gli agricoltori calabresi guardano le loro piante ancora in attesa di maturazione.
Molti di loro non parlano. Per dignità, per stanchezza, per sfiducia.
Ma la rabbia c’è.
“Abbiamo fatto investimenti, trattamenti, potature… E poi quando tocca a noi, il mercato è saturo, i prezzi calano, e ci dicono che c’è troppa offerta”.
Le aziende agricole locali — soprattutto nel Reggino, nella Locride e nella zona tra Cassano e Corigliano — producono ciliegie di altissima qualità, alcune anche con disciplinari biologici o a residuo zero. Eppure, non riescono mai ad avere il tempo di vendere per primi.
Vengono sistematicamente sorpassati da una filiera impazzita, che punta sull’anticipo, non sulla qualità.
Il consumatore ha una responsabilità (e un potere)
Tutto questo potrebbe essere fermato?
Sì, se lo volessimo. Se chi compra cominciasse a chiedere da dove viene il prodotto, perché costa così tanto, se è davvero il momento giusto per mangiarlo.
Perché le stagioni esistono. E sono una cosa seria.
Comprare ciliegie fuori tempo, importate, a prezzi esorbitanti, non è una moda innocua. È un atto che danneggia chi coltiva davvero.
Una riflessione amara come un nocciolo acerbo
In Calabria, terra generosa, terra lenta, terra di sapori veri, siamo arrivati al punto di doverci “importare” le ciliegie.
Per non saper aspettare.
Per guadagnare prima.
Perché il mercato ha fretta. Ma la natura no.
E forse dovremmo ricominciare a darle retta, alla natura.
Aspettare una settimana in più.
Pagare il giusto, non l’assurdo.
E soprattutto scegliere i nostri frutti, quelli veri, quelli di casa, quelli che hanno ancora qualcosa da raccontare.