Santa “Tita” Buccafusca: il prezzo della libertà nella trappola della ‘ndrangheta
Una donna corrotta dal potere mafioso che tentò di fuggire al destino segnato, trovando una fine tragica

Santa Buccafusca, conosciuta da tutti come Tita, nacque il 7 febbraio 1974 a Nicotera, in Calabria. Cresciuta in un contesto rurale, si innamorò da giovanissima di Pantaleone Mancuso, noto come “Scarpuni”, esponente di spicco della ‘ndrangheta. Da quel momento, la sua esistenza divenne lo specchio della violenza e del controllo esercitato dalla criminalità organizzata sulle famiglie, obbligandola ad entrare in un mondo fatto di paure, reticenze e doveri imposti.
Il gesto del coraggio
Nel febbraio 2011, portando con sé il figlio di circa 15 mesi, Tita scelse di presentarsi alla caserma dei carabinieri di Nicotera Marina per chiedere protezione e avviare una collaborazione con la giustizia. Seguì un interrogatorio durato ore: una deposizione dettagliata, una testimonianza che avrebbe potuto distruggere il potere del clan Mancuso, rendendola bersaglio umano di minacce e pressioni interne. Due giorni dopo, però, la paura le fece fare dietrofront: non firmò le carte e rinunciò ufficialmente alla protezione. La decisione fu definitiva, e su di lei si abbatté il peso spietato dell’organizzazione criminale.
Una morte avvolta nel mistero
Il 16 aprile 2011, Tita fu ricoverata all’ospedale di Polistena dopo aver ingerito acido muriatico. Tradotta poi al nosocomio di Reggio Calabria, vi morì il 18 aprile, all’età di 37 anni, dopo un’agonia infernale. La versione ufficiale fu quella di suicidio volontario, ma immediatamente sorsero dubbi: molti si chiesero come fosse possibile che una madre mettesse in atto un gesto tanto estremo. Le intercettazioni uscite durante i processi suggeriscono che anche i clan vicini, come quello degli Accorinti di Briatico, accolsero con sollievo la sua morte, come se si fosse tolta di mezzo un pericolo per la loro rete criminale.
I sospetti di un omicidio mascherato
Le inchieste successive aprirono uno spiraglio inquietante: poteva davvero un individuo ingerire una quantità così grande di acido con volontà? Il pm antimafia Camillo Falvo e altri magistrati della Dda di Catanzaro avanzarono l’ipotesi di omicidio mascherato da suicidio. Le dinamiche interne e le pressioni ricevute da clan vicini fecero sì che la sua morte fosse interpretata dalla Procura come un “sospiro di sollievo” per i boss, non semplicemente un tragico gesto personale.
Il coraggio eterno
Il sacrificio di Tita Buccafusca rimane emblematico del ruolo soffocante che la ‘ndrangheta ha anche sulle donne, costrette alla soggezione, alla rassegnazione o all’autodistruzione. Il suo tentativo, sia pur abortito, di spezzare la catena del silenzio e di ritagliarsi un futuro diverso per sé e per suo figlio rappresenta una testimonianza di ribellione contro un sistema di potere che non tollera dissidi né fuoriuscite. A distanza di anni, il suo nome continua a evocare tensioni tra verità ancora da accertare e la consapevolezza che il prezzo della libertà, in alcuni contesti, può essere davvero troppo alto.