«Mi dicevano sei pazza. Ti devi ammazzare. Mi hanno insultata, minacciata, picchiata, frustata. Ma io sono qui. Piuttosto che vivere nella menzogna avrei preferito morire. Tanto quella non era vita. Era la morte in vita».

La vicenda

Anna (nome di fantasia), 22 anni, è una delle ragazze vittime della vicenda nota come quella delle «ragazze di Seminara». In un’intervista rilasciata al Corriere della Sera, racconta di un incubo iniziato quando era ancora minorenne: violenze ripetute, abusi, isolamento, e infine il coraggio di denunciare.
Quel che accade nella terra “bellissima ma ferita” della Piana di Gioia Tauro — con le sue coste, le scogliere e i fichi d’india — è lo specchio di un conflitto profondissimo: tra la luce della bellezza e l’ombra della ’Ndrangheta, tra la rassegnazione e la resistenza civile.

Anna ha lasciato il suo paese d’origine, ha cambiato scuola, ha cambiato vita. «Un pochino meglio», dice con voce guardinga, «ho cambiato paese da un paio di mesi, questo mi aiuta, prima vivevo chiusa in casa, barricata. Mi svegliavo al mattino dicendomi oggi proverò a uscire, ma poi non ce la facevo. Restavo a letto a piangere». Accanto a lei oggi c’è solo la madre, e un passato troppo grande per essere dimenticato: «Mia sorella all’inizio mi è stata vicina, ma poi mi ha abbandonata. Mio fratello, l’altra mia sorella e i rispettivi compagni: adesso hanno il divieto di avvicinarsi a me».

Le violenze non sono solo fuori: si infiltravano in casa, nei rapporti di sangue, nella quotidianità. «Mia zia, la sorella di mio padre, e suo figlio mi hanno anche picchiata. Mia zia mi ha frustata con una corda. Mi diceva che dovevo morire. Che avrei fatto meglio a non nascere proprio…». Insulti, minacce, isolamento: «Mi dicevano che avevo rovinato la reputazione di tutti». Per Anna, quel paese – che le era casa – è diventato un lungo tempo sospeso.
La sua denuncia è arrivata solo dopo anni di silenzio: «Se non fosse venuta alla luce la storia dell’altra ragazza probabilmente non avrei mai trovato la forza di denunciare. Ma quando ho saputo cosa avevano fatto a lei, ho deciso di parlare».

Le indagini

La vicenda non è isolata. È emersa dal buio della complicità e dell’omertà nella comunità di Seminara. Le indagini della Procura di Palmi parlano di un gruppo che avrebbe compiuto violenze sessuali di gruppo su ragazze minorenni, alcune legate a famiglie della ’Ndrangheta. I processi hanno portato a condanne, misure cautelari, sequestri. La comunità ha reagito con sit‐in e manifestazioni: a Seminara è scesa in piazza per dire «Ora basta con il silenzio complice». 

Anche la regione è intervenuta: la Regione Calabria, su impulso del governatore Roberto Occhiuto, ha assegnato un alloggio sicuro alla famiglia di una delle vittime, segnalando che “le istituzioni sono al fianco” di chi ha avuto il coraggio di denunciare.

Per capire il coraggio di Anna bisogna partire proprio da questa terra: strade dissestate, palazzi in rovina, ma anche coste mozzafiato che contraddicono l’ombra, agavi e fichi d’india che crescono tra i ruderi. È un contesto dove la violenza della ’Ndrangheta incrocia la vita quotidiana e dove resistere è già un atto politico.

Anna immagina il futuro qui, in Calabria: «Il mio futuro è qui, in Calabria. È casa mia, nonostante tutto». Vuole fare il corso per diventare estetista, spera di avere nuove amicizie, di ricominciare a vivere. Ma ammette: «A volte penso che non mi libererò mai del mio fardello. Che non sarò mai felice». Eppure è qui, e questo dice già molto.

La storia di Anna e delle ragazze di Seminara non può essere ridotta a una cronaca isolata: è un monito per le istituzioni, per la società, per ciascuno di noi. È una chiamata a rompere il silenzio, a scegliere la verità, a dare concretezza alla speranza. È il racconto di una ragazza che ha osato sopravvivere quando tutto le diceva di morire.