Il piccolo Cocò
Il piccolo Cocò

Il 16 gennaio 2014, tra Cassano allo Ionio e Firmo, si consumò una delle pagine più atroci della cronaca calabrese recente. Nicola Campolongo, detto “Cocò”, un bambino di appena tre anni e mezzo, viaggiava con il nonno Giuseppe Iannicelli e la sua compagna Ibtissam Touss a bordo di una Fiat Punto. Quel giorno, una auto li affiancò in una zona isolata, e i sicari, con una precisione brutale, spararono a bruciapelo contro tutti e tre. Dopo l’agguato i corpi furono dati alle fiamme all’interno del veicolo, lasciando il piccolo Cocò carbonizzato nel seggiolino, suo malgrado “scudo umano” del nonno.

Un conflitto camuffato da vendetta

Le indagini hanno rapidamente ricostruito il contesto criminale del triplice omicidio: Proprietà e spaccio di droga nel mirino dei clan locali erano al centro di una feroce faida. Iannicelli, con precedenti per droga, era finito nel mirino perché accusato di avere rapporti con clan rivali. Cocò, tragicamente, si trovava lì per caso, portato con sé dal nonno nel tentativo di scoraggiare agguati. Quel gesto, però, si rivelò fatale.

Un dolore che scuote la comunità

La violenza dell’omicidio indignò l’intera Calabria, cuore dell’area jonica e fucina delle ‘ndrine. La notizia della morte del piccolo Cocò suscitò commozione in tutta Italia. Sui luoghi del delitto si svolsero fiaccolate silenziose, mentre la Chiesa condannava senza mezzi termini l’efferatezza del gesto. E il Papa stesso, durante un Angelus in piazza San Pietro, rivolse una preghiera al bambino e condannò la ferocia della criminalità.

Giustizia: dai killer ai mandanti

Le indagini coordinate dai Carabinieri del Ros e dalla Dda di Catanzaro portarono all’arresto dei presunti esecutori materiali, che spararono e diedero fuoco all’auto. Successivamente, con sentenza definitiva, furono condannati all’ergastolo, confermando la matrice mafiosa del delitto. Ma un nodo cruciale resta: l’individuazione dei mandanti. Il processo ha svelato dinamiche di potere tra clan, ma la rete dei mandanti rimane in parte avvolta dall’ombra.

Da cronaca a memoria: la tv che racconta

La vicenda di Cocò ha superato i confini della cronaca quando è stata scelta come soggetto per una puntata della serie “Non chiamateli eroi”, ispirata al libro di Nicola Gratteri e Antonio Nicaso. Ambientata nel contesto ionico, la produzione della televisione ha voluto restituire la dimensione emotiva e simbolica del sacrificio di un bambino innocente, con l’obiettivo di promuovere la cultura della legalità e mantenere viva la memoria collettiva di vicende che non devono ripetersi.

Un angelo che parla di speranza

Tra le testimonianze più toccanti c’è la fiaccolata spontanea celebrata a Cassano: migliaia di persone si radunarono per invocare pace in memoria del piccolo Cocò. Sua madre, in una lettera struggente, chiese a tutti, alla sua comunità e agli autori del crimine, di scegliere la via del silenzio e della pace, e non quella della vendetta. Quelle parole profonde rimasero nel cuore della comunità jonica, trasformando una tragedia assurda in un monito per il futuro.

Una memoria da coltivare

A ormai dieci anni di distanza, la vicenda di Cocò resta una ferita aperta e una chiamata di responsabilità: quella di preservare la memoria dei più innocenti, di continuare la ricerca della verità fino all’ultimo tassello e, soprattutto, di costruire una cultura che rigetti ogni forma di violenza, soprattutto quella che colpisce i più indifesi. La sua storia continua a insegnarci che da un dolore estremo può nascere una strada di consapevolezza e impegno.