Foto dei morsi sul volto del piccolo Gabriele
Foto dei morsi sul volto del piccolo Gabriele

PALMI – Il tempo passa, la rabbia resta.
Sono trascorsi giorni, settimane, mesi, da quando qualcuno disse che “siamo vicini alla scadenza dei termini”. Eppure oggi, mentre scriviamo, nessuno sa davvero se quei termini siano scaduti, sospesi o semplicemente dimenticati.
Il caso del piccolo Gabriele, il bambino di Palmi aggredito e morso da un suo coetaneo all’interno di un asilo privato nel dicembre 2021, è diventato la misura perfetta di una Calabria che si indigna a parole ma lascia marcire le ferite nella burocrazia.

UNA VICENDA CHE NON PUÒ ESSERE ARCHIVIATA

Quella mattina, Gabriele – poco più di un anno di vita – fu affidato a una struttura che prometteva sicurezza, attenzione, professionalità. Ne uscì invece con oltre sessanta morsi sul corpo, il volto devastato e una vita segnata da un dolore che nessuna giustificazione potrà mai cancellare.
Le immagini delle telecamere – che avrebbero dovuto chiarire cosa fosse accaduto davvero – risultarono in parte mancanti o incomplete. Come può accadere, in un luogo dove si custodiscono bambini, che la verità si perda nei file corrotti di un hard disk?
Le educatrici parlarono di un “incidente tra bambini”, ma le ferite, secondo i referti, raccontano altro: un’aggressione prolungata, compatibile con diversi minuti di assenza di controllo. Minuti eterni, in cui la vigilanza è diventata assenza, e l’infanzia dolore.

LA GIUSTIZIA FERMA AL PALO

La famiglia ha denunciato, chiesto chiarimenti, atteso.
Ma a distanza di oltre tre anni, il dubbio è atroce: i termini sono scaduti? Esiste ancora un procedimento in corso? Qualcuno ha mai risposto formalmente a questa domanda?
La risposta è no.
Nessun atto pubblico, nessuna comunicazione ufficiale, nessuna chiarezza. Solo il silenzio, quello peggiore: quello istituzionale, che trasforma la giustizia in una pratica smarrita tra uffici e protocolli.
Eppure stiamo parlando di un bambino, non di una cartella dimenticata su una scrivania.

La legge è chiara: in casi di lesioni, di presunte omissioni di vigilanza, il tempo è un fattore determinante. Quando il tempo scade, la giustizia muore per decorrenza dei termini.
Ma qui nessuno sa se è morta, o se semplicemente è in coma.

L’INDIGNAZIONE CHE NON BASTA

In Calabria, troppe volte la giustizia arriva tardi. Ma quando riguarda un bambino, il ritardo non è più accettabile. È un insulto.
Questo caso – che dovrebbe essere oggetto di verifiche, di relazioni, di interventi immediati – è diventato una zona grigia. Una di quelle dove lo Stato si nasconde dietro i faldoni e le istituzioni locali evitano di esporsi.
È comodo dire “si vedrà”. È comodo non sapere se i termini sono scaduti. Così nessuno sbaglia, ma nessuno risponde.

La verità è che la Calabria vive ancora sotto il peso di un’abitudine tossica: quella del tempo che assolve.
Quando non si riesce a dare giustizia, basta lasciar scorrere i giorni. Finché la memoria sbiadisce, finché la rabbia si attenua, finché i documenti finiscono negli archivi della dimenticanza.

IL PARADOSSO DEI CONTROLLI

Chi doveva vigilare su quella struttura? Chi doveva garantire la sicurezza dei bambini?
Le domande restano. Gli organi competenti hanno mai svolto un’ispezione approfondita dopo l’episodio? È mai stata verificata la regolarità dei protocolli di sorveglianza?
Non lo sappiamo.
Eppure, se davvero si vuole evitare che episodi simili si ripetano, la risposta non può essere l’oblio.
Un asilo è un luogo sacro, non un laboratorio di omissioni.

Il piccolo Gabriele

Chi lavora con i bambini deve essere formato, supervisionato, controllato. Perché la fiducia dei genitori non è un atto simbolico, ma un patto di vita.
Nel caso di Gabriele, quel patto è stato tradito.
E oggi, mentre la Calabria discute di infrastrutture e campagne elettorali, un bambino porta ancora i segni di ciò che un intero sistema non è stato capace di prevenire né di punire.

I TERMINI DELLA VERGOGNA

Siamo nel paradosso. Tutti sanno che esistono termini di legge, ma nessuno sa se sono scaduti.
È il dramma di una giustizia che non comunica, di un’amministrazione che non risponde.
Ogni giorno che passa senza chiarezza è una ferita ulteriore. Perché significa che il tempo non è più uno strumento di tutela, ma un’arma di dismissione.
E se davvero i termini sono scaduti – come alcuni temono – allora la domanda diventa politica, non solo giudiziaria: chi tutela i minori quando le carte scadono? Chi risponde quando la legge tace?

UNA STORIA CHE PARLA DI NOI

Il caso del piccolo Gabriele non è solo una tragedia individuale: è la fotografia di un sistema in cui la responsabilità si dissolve come nebbia.
Un Paese che non sa garantire giustizia a un bambino non può dirsi civile.
E una regione che non riesce a pretendere risposte su un fatto simile non può continuare a parlare di “rinascita”.
Palmi, oggi, è il simbolo di questa contraddizione: un luogo dove tutti sanno, ma nessuno parla.

LA RICHIESTA DI TRASPARENZA

Non serve pietismo. Serve chiarezza.
La famiglia di Gabriele ha diritto a conoscere la verità. I cittadini calabresi hanno diritto di sapere se la giustizia ha agito o dormito.
Non bastano i comunicati, non bastano le frasi di circostanza. Serve una presa di posizione, un atto pubblico, una verifica.
Perché quando si parla di bambini, ogni secondo di silenzio pesa come un atto d’accusa.

LA CALABRIA CHE DEVE GUARDARE NEGLI OCCHI LA SUA COSCIENZA

Tre anni dopo, restano le cicatrici, fisiche e morali.
Il piccolo Gabriele rappresenta tutti i minori calabresi affidati a un sistema che promette sicurezza ma troppe volte offre solo abbandono.
È tempo di chiamare le cose col loro nome: non è solo un caso giudiziario, è un fallimento collettivo.
La giustizia può ancora intervenire, se ha coraggio. Le istituzioni possono ancora rimediare, se hanno volontà. Ma serve agire adesso, non dopo un’altra scadenza dimenticata.

Perché i termini forse sono scaduti.
Ma la coscienza di un popolo non ha prescrizione.