Una costata di Black Angus
Una costata di Black Angus

L'illusione dell'eccellenza e il marketing dell’ignoto

La parola “Angus” non è un marchio. È una razza. E come tutte le razze, può essere allevata in modo eccellente o pessimo. Dire “Angus” non garantisce nulla. Così come “Tomahawk” è solo un taglio, non una certificazione.

Ma questo il consumatore medio non lo sa, e i ristoratori spesso approfittano della suggestione creata dai nomi esotici.

In un ristorante di Cosenza, ci hanno servito una “Chianina australiana”.
Un ossimoro gastronomico. Perché la Chianina è una razza italiana, e l’Australia non la alleva.
Eppure, è stampata a grandi lettere sul menù. Perché fa scena. Perché fa vendere.

Nessun obbligo di trasparenza. Nessun controllo reale.
Ed è qui che si apre il problema più grave: nessuno obbliga i ristoratori a indicare con precisione la provenienza della carne.

Non esiste una normativa chiara e vincolante che imponga: L’indicazione della razza bovina; la filiera dell’allevamento; il metodo di macellazione; l’origine nazionale o extracomunitaria; l’alimentazione dell’animale.

Eppure, tutto questo riguarda direttamente la salute, la sostenibilità e l’etica alimentare.

Il cliente paga, consuma e crede. Ma non conosce nulla di ciò che mangia.
Una cecità culturale e commerciale che colpisce direttamente la fiducia e la qualità.

La carne calabrese esiste. Ma è sparita dai piatti

Mentre si serve carne anonima sotto vuoto da chissà dove, la carne locale calabrese — da razze come la Podolica — resta esclusa dai menù.

Perché? Perché richiede più lavoro. Più conoscenza. Più tempo. È meno standardizzata. È più costosa all’origine, ma infinitamente più ricca di gusto, tracciabilità e dignità.

Eppure, nessuno la racconta. Nessuno la promuove. Nessuno la difende.

Il sapore della verità è scomparso

L’illusione della “carne speciale” è uno specchio per le allodole.
Un modo per mascherare la perdita di identità gastronomica sotto una coltre di nomi accattivanti.

Ma non possiamo permetterci di ignorare cosa mangiamo. Non in Calabria, terra di sapori veri e allevatori coraggiosi.

È tempo di fare chiarezza. Di chiedere. Di pretendere.
Il consumatore ha diritto a sapere. I ristoratori hanno il dovere di dire.
E la Calabria ha l’obbligo morale di proteggere la sua carne, la sua verità, la sua storia.