Il rapimento di Cristina Mazzotti: un sequestro che cambiò la storia della lotta all’‘ndrangheta
Una 18enne rapita nel Nord, tenuta in una fossa, e dimenticata fino alla riapertura del caso dopo quasi cinquant’anni

La notte tra il 30 giugno e il 1° luglio 1975, Cristina Mazzotti, giovane studentessa di 18 anni figlia di un imprenditore, fu rapita mentre si trovava nei pressi della sua abitazione a Eupilio, in provincia di Como. La ‘ndrangheta la trasportò fino al Piemonte, imprigionandola in una fossa profonda poco più di un metro e lunga circa due, priva di sufficiente aerazione. Tenuta in condizioni disumane, ricevette dosi di tranquillanti miste a stimolanti per mantenerla docile, mentre i rapitori avanzavano richieste di riscatto milionarie.
L’esito tragico e la scoperta del corpo
Durante il sequestro la famiglia pagò circa un miliardo di lire tra fine luglio e inizio agosto. Fu proprio in quel periodo che Cristina morì, probabilmente a causa di un mix letale di farmaci. Il 1° settembre 1975 il suo corpo venne ritrovato in una discarica di Galliate, nel Novarese, sepolto alla rinfusa insieme ai rifiuti. L’intera vicenda sconvolse l’opinione pubblica: per la prima volta la ‘ndrangheta aveva preso di mira una ragazza.
I mandanti e le nuove indagini
Nel corso degli anni è emersa la responsabilità di capi e affiliati della ‘ndrangheta: Giuseppe Morabito, Demetrio Latella, Giuseppe Calabrò e Antonio Talia sono stati indicati come mandanti e organizzatori del sequestro. Grazie a una grande impronta in un’auto e all’opera tenace dell’avvocato Fabio Repici, le indagini furono riaperte nel 2008, portando all’apertura di un nuovo processo a Milano e poi a Como, inaugurato nel settembre 2024. I quattro imputati hanno scelto il rito abbreviato.
Un simbolo della ferocia mafiosa e del cambiamento
Il sequestro di Cristina ha segnato un punto di svolta nella strategia criminale della ‘ndrangheta: un tema di ricatto estremo e violenza che serviva a finanziare l’espansione nel traffico di stupefacenti e investimenti illegali. Questo episodio, insieme a casi simili, ha contribuito alla nascita del monito collettivo contro la mafia, rafforzando la risposta delle istituzioni e della giustizia. Oggi il liceo frequentato da Cristina porta il suo nome, per ricordare e far emergere la memoria di una giovane vittima innocente.
Verso la verità e la giustizia
Il processo in corso rappresenta l’ultima occasione per identificare e condannare definitivamente i responsabili di un omicidio crudele, consumato nel silenzio delle montagne e delle discariche. Il caso di Cristina Mazzotti resta non solo un capitolo doloroso dell’Italia degli anni Settanta, ma anche un esempio di quanto sia stato importante, per lo Stato e la società civile, trasformare un’infamia in un’azione di resistenza per la dignità umana.